Editoriale. L'adeguata protezione per le donne non è utopia
La violenza maschile contro le donne non è mai un fatto privato. Nemmeno quando si consuma all’interno di una singola abitazione: rispecchia un vulnus, una ferita che ha le sue origini in retaggi culturali residuali in alcuni Paesi ed endemici invece in altri, ma che in ogni caso fanno della vittima o sopravvissuta un soggetto che ha diritto ad adeguata protezione da parte dell’intera comunità.
La sentenza con la quale la Corte di Giustizia Europea, emanazione della Ue con sede in Lussemburgo, ha stabilito questo principio è un passo avanti nella consapevolezza dell’odioso fenomeno della violenza di genere. Il caso è quello di Jina (nome di fantasia), cittadina turca di origine curda costretta dalla sua famiglia a sposarsi con un uomo non scelto da lei, picchiata e minacciata dal marito a tal punto da dover fuggire all’estero.
Riparata in Bulgaria e temendo per la propria vita in caso avesse dovuto far ritorno in patria, Jina ha chiesto di godere di protezione internazionale. Il giudice bulgaro nell’aprile scorso si è rivolto alla Corte di Giustizia della Ue per dirimere la questione. Ieri la risposta: le normative che regolano la concessione dello status di rifugiato o, in subordine, della protezione sussidiaria devono essere ampliate ai casi di violenza contro le donne.
O meglio: la violenza di genere viene riconosciuta come una fattispecie della più ampia categoria, già prevista, della persecuzione. In altre parole, le donne devono essere considerate appartenenti a un “gruppo sociale” e come tali, nel loro insieme, possono beneficiare dello status di rifugiate quando dimostrano di essere esposte nei loro Paesi d’origine, proprio in virtù dell’appartenenza al genere femminile, a violenze fisiche o mentali, incluse le violenze sessuali e domestiche.
Donne come “gruppo sociale”, quindi, in una situazione analoga a quella degli omosessuali che meritano protezione in quanto tali se nei Paesi di origine sono sottoposti a minacce gravi o a persecuzioni. Non si tratta di una ghettizzazione. Al contrario, del riconoscimento che il tema della violenza di genere in alcuni territori è talmente pervasivo da dover indurre ciascun Paese dell’Unione Europea a esercitare una sorta di (teorica) protezione collettiva per chi ne è effettivamente o potenzialmente vittima. Si pensi ad esempio all’Afghanistan o all’Iran, dove periodicamente si viene a conoscenza di casi di lapidazione per adulterio, o di matrimoni precoci e forzati, o di violenze atroci in seno alla coppia e alla famiglia: ciascuna di quelle mogli e madri e figlie avrebbe, in base alla sentenza di ieri, il diritto ad essere accolta e protetta in un Paese dell’Unione Europea in virtù del fatto di appartenere a un “gruppo sociale” perseguitato in Patria.
Ma c’è ancora di più: nella sentenza si dice anche che se non esistono le condizioni per concederle lo status di rifugiata, la donna che singolarmente (in questo secondo caso non come “gruppo sociale”, ma come individuo) denuncia – e dimostra – di essere minacciata di morte o di atti di violenza da parte di un membro della propria famiglia o della comunità, può godere della protezione sussidiaria e quindi non può essere rimpatriata.
Si tratta, come accennato, di un passaggio culturale importante, reso possibile dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa (organizzazione di difesa dei diritti umani che raccoglie 46 Stati membri) che, firmata nel 2011 e ratificata tra gli altri dall’Italia due anni dopo, stabilisce che la violenza di genere non è “solo” violenza contro le donne ma è anche una violazione dei diritti umani e soprattutto è una «manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguale tra i sessi». La Convenzione ambisce, si legge nel preambolo, a creare un’Europa libera da questa violenza. Si tratta ovviamente di un’aspirazione che potrebbe apparire come un’utopia, ma la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europa sembra dire che, se la battaglia è difficile, occorre impegnarsi di più, non certo rinunciarvi.