Opinioni

Analisi. La manovra da 30 miliardi: ecco tutte le “acrobazie” in bilancio

Eugenio Fatigante giovedì 17 ottobre 2024

La manovra come un'acrobazia

La manovra c’è, per grandi linee. Dalle prime anticipazioni di un testo destinato a evolvere, questo intervento salito a 30 miliardi appare come una legge acrobatica, per così dire, che cerca e si sforza di mandare qualche segnale nuovo (e positivo), pur nella mancanza di una chiarezza di fondo, ancora una volta, su quel che servirebbe davvero a un Paese abituato dalla politica a vivere al di sopra delle proprie possibilità: quelle di chi è oberato da un debito pubblico ormai a un passo dai 3mila miliardi e che si dibatte in una crescita sempre asfittica, malgrado l’aiuto della maxi-iniezione da 195 miliardi di fondi europei del Pnrr.

L’assenza di una piena “operazione-verità” si palesa già nella premessa del ministro Giancarlo Giorgetti: «Nessuno avrà nuove tasse». Non del tutto vero, perché il miliardo atteso dalle minori detrazioni equivale a più tasse, per non dire dell’intervento sulle accise (quelle che la Meloni dei tempi dell’opposizione voleva cancellare), non a caso per ora nemmeno quantificato.

Ma partiamo dagli aspetti positivi. Stante la situazione (quella internazionale, ma pure quella nazionale di un’Italia finita in procedura d’infrazione Ue per deficit eccessivo), uno sforzo è innegabile e va nelle direzioni auspicate di riservare un surplus di attenzione alle famiglie numerose, col primo abbozzo di quoziente, e ai redditi medio-bassi, con il carattere strutturale dato al taglio del cuneo. Certo, non è tutto oro quel che luccica: il jolly finale del nuovo bonus(non erano stati esclusi per sempre dalla premier?) da mille euro una tantum per i neonati non invertirà la rotta della denatalità, così insegna la storia di questi strumenti; e la stessa conferma delle detrazioni è da vedere alla prova dei fatti, perché peserà (giustamente) sui single ma forse pure su taluni nuclei, dato che dovrà garantire appunto un miliardo.

Bene sicuramente il potenziamento dell’aiuto per gli asili nido, anche se è la materia prima (le strutture) a mancare in larga parte del Paese. Positivi sono pure i segnali riservati alla sanità, settore da tempo nella bufera e bisognoso di maggiori investimenti come capitale umano e come strutture. Anche se proprio qui si manifesta uno degli aspetti più “acrobatici”: perché un’operazione strutturale – le maggiori risorse al Ssn, per quanto ridotte a soli 900 milioni per il 2025, troppo poco rispetto a esigenze da 4-5 miliardi, anche se sulle cifre è scoppiato un “giallo” – è coperta principalmente con il “contributo” di banche e assicurazioni, che varrà soltanto per due anni.

E veniamo al capitolo forse più discusso e innovativo di questa manovra: il «sacrificio » (Giorgetti dixit) da 3,5 miliardi annui chiesto ai settori creditizio e assicurativo. Il governo Meloni se lo è giocato politicamente bene, rivendicando di fare di più della sinistra davanti ai “poteri forti”.

Senza addentrarci nei tecnicismi, di fatto è un rinvio di deduzioni – o un anticipo di imposte – che potrebbero essere recuperate però nel tempo (e l’assenza di reazioni forti dei soggetti colpiti potrebbe essere un segnale in tal senso). Non ha quella chiarezza e correttezza giuridica, per dire, dell’eurotassa del governo Prodi nel 1996, già dalla sua configurazione: si presenta come un contributo, oggetto però di una contrattazione giunta al termine di un tira e molla di due anni, che forse poteva essere chiuso prima e con maggior chiarezza reciproca.

Senza contare che occorrerà vigilare sulla tentazione, sempre presente, di rivalersi poi sui costi addossati ai clienti. Come da valutare è la stretta sulle spese dei ministeri e degli enti pubblici, positiva come annuncio, ma di cui andrà soppesata la ricaduta finale.

Mentre sulle pensioni, dopo aver già ripudiato le anacronistiche tentazioni di pensioni anticipate, stavolta sono stati riposti nel cassetto i sogni di assegni minimi aumentati. Mentre la vicina Francia si dibatte in questi giorni con una manovra ben più dura, da 60 miliardi, da noi – archiviati ormai da tempo i propositi “rivoluzionari” di andare contro i diktat europei – il governo Meloni, che oggi strizza l’occhio ai “tecnocrati” di Bruxelles un tempo stigmatizzati, si muove in una terra di mezzo fra il rigore evocato e la tentazione di accontentare ancora, qua e là, qualche tipologia di cittadini.

Rimandando a tempi eventualmente peggiori, se non direttamente al prossimo governo nel 2027, i sacrifici veri, quelli visti come il mezzo più sicuro per perdere voti, eppure necessari per tentare almeno di coniugare il risanamento finanziario e un rilancio dello sviluppo. E di misurare la distanza fra governare il presente e l’avere un disegno strategico. Qualcun altro, prima o poi, dovrà metterci mano.