Le conseguenze umane della crisi dovrebbero far riflettere chi ha portato l’economia in questo stato e non chi da quello stato sta cercando di farla uscire. Non possiamo più solo studiare in vista di misure per la crescita, ma dobbiamo puntare su investimenti pubblici, mediando fra il mondo anglosassone, figlio di Keynes, e quello tedesco, che vede la crescita come prodotto di comportamenti etici individuali e collettivi». Sono parole di Mario Monti e a nostro avviso uno dei più appropriati commenti al grido di allarme che si è levato in queste settimane ovunque si sia votato in Europa. Invocare l’antipolitica per spiegare il terremoto elettorale francese, greco, italiano sarebbe solo una miope diagnosi. Perché la caduta di Sarkozy a Parigi e la teatrale catastrofe del duopolio Pasok-Nea Demokratia in Grecia e la parallela ascesa di massimalismi e intolleranze che vanno dal Front National di Marine Le Pen ai neonazisti greci di Alba Dorata alla destra xenofoba olandese, passando per i fossili ideologici del Kke ellenico (dichiaratamente “filosovietico”, a vent’anni della scomparsa dell’Urss) così come l’insorgenza di nuovi e poco esplorati e definibili soggetti come il movimento Cinque Stelle italiano, altro non sono – a nostro avviso – che un unico cacofonico segnale di rivolta nei confronti dei partiti e dei governanti che fin qui, a vario titolo, hanno malgovernato, deluso, perfino tradito la propria missione.E non limitiamoci a gettare la croce addosso alla incapace e corrotta classe dirigente ellenica o alla indebolita e subalterna politica dell’Eliseo nei confronti della Germania, nonché alle sventatezze e alle scelte sbagliate dei nostri stessi governi: sul podio dei grandi protagonisti di una stagione di grande cecità politica primeggia suo malgrado la cancelliera tedesca Angela Merkel, responsabile indiscussa del ritardo e della sordità con cui l’Europa ha saputo chiudere le orecchie di fronte a uno sfacelo sociale e politico che da anni sta gridando vendetta.Con cinquanta milioni di disoccupati, una leva giovanile che in Paesi come la Spagna (ma anche da noi) sfiora il 35% di senza lavoro, una moneta che traballa a ogni colpo della speculazione e una linea iper-rigorista imposta da Berlino con l’aggiunta (per ora) di qualche Paese scandinavo, l’Unione Europea non può illudersi di sopravvivere. La stessa elettrica vitalità di partiti dalla ragione sociale e ideologica morta da decenni non è che la controprova di una ferita che si va infettando nell’attesa che qualcuno si decida a curarla sul serio.In altre parole, non c’è un minuto da perdere. E soprattutto non c’è un istante da perdere nel dare un colpo di sterzo a quell’artificiale e letale macchina – come è già stato scritto su queste colonne – del rigore per tutti (e dello sviluppo nel solo Paese che, a tali condizioni, riesce a permetterselo) che la Germania della Merkel incarna con puntiglio e che finora non ha dato grandi risultati né sul fronte dei debiti sovrani né tanto meno su quello della crescita.Lo scricchiolio dell’edificio europeo deve evidentemente essere giunto anche alle orecchie della Merkel e del poderoso sistema bancario germanico che la sostiene e in parte la condiziona. Dopo aver osteggiato fino all’ultimo il candidato Hollande e aver fatto un esplicito
endorsement per il più malleabile Sarkozy, la cancelliera ora punta a ricreare l’asse Parigi-Berlino che la caduta del
petit Napoleon aveva lasciato sospeso, accogliendo Hollande come sponda necessaria a ricreare «un’Europa della crescita e del benessere». Meglio tardi che mai. Come non si può biasimare il presidente permanente del Consiglio europeo Van Rompuy, che indice in tutta fretta un vertice straordinario informale dei capi di Stato e di governo per il 23 maggio, dedicato, appunto, all’emergenza crescita, in attesa di istruire quello decisivo di fine giugno.Il messaggio delle urne è stato molto chiaro: questa Europa, le sue maglie, le sue regole, i suoi vecchi Trattati, non può più funzionare. Alla politica il compito di inventare modelli nuovi, di trovare idee, di stringere alleanze, di fabbricare cioè quella
governance che è sempre rimasta sulla carta, quasi sempre prigioniera degli egoismi nazionali. Milioni di europei hanno bocciato non la politica, ma i partiti che l’hanno malamente interpretata. Una sveglia sonora. E un vuoto che chiede di essere colmato.