Opinioni

Accanto e insieme a chi vive in strada (capire persone e gesti per giudicare)

Marco Tarquinio sabato 19 gennaio 2019

Caro direttore,

leggo su “Avvenire” molte cronache che parlano di clochard, senzatetto, barboni, homeless... E vorrei dire ciò che vedo quotidianamente sul pianerottolo all’ingresso della chiesa di Santa Maria delle Grazie alle Fornaci di Roma. Un uomo e una donna da molto tempo dormono sotto i cartoni. Sono entrambi di lingua inglese. Col parroco e un fedele che parla quella lingua si è cercato di aiutarli, offrendo tutto ciò di cui una persona ha bisogno; dall’alloggio al vestiario ai soldi per ritornare al loro Paese. “No, non abbiamo bisogno di nulla!”. I vestiti sono ridotti a brandelli. La domenica “si alzano” uscendo carponi dai cartoni mentre i fedeli entrano o escono per le sante Messe. Credo che sia la Caritas di Roma che Sant’Egidio conoscono queste due persone in quanto da almeno 5-6 anni, se non di più, vivono in quartiere. Soffre il cuore vederli in quelle condizioni, ma cosa si può fare in questi casi? Quando queste persone non vogliono essere aiutate in nessun modo? Se poi muoiono per il freddo, come sta accadendo anche a Roma per alcuni di loro, c’è subito chi grida: “Ecco la solidarietà dei preti, di chi li conosceva, dei romani!”. A volte credo, prima di gridare allo scandalo come spesso avviene, bisognerebbe conoscere i fatti.

Gianfranco Antinori, Roma

Lei racconta fatti veri, gentile e caro signor Antinori. Come sanno tutti coloro che hanno esperienza di aiuto e amicizia con quanti per strada ci vivono – diciamo così – “con convinzione” e dentro a percorsi umani diversissimi, che nessuno può permettersi di giudicare con supponenza. Per questo generosità, pazienza, rispetto e allegria (sorella minore, della «perfetta letizia» francescana e utile come quella a superare difficoltà e incomprensioni) sono strumenti utilissimi. Anzi, indispensabili. Indispensabili a chi vuole agire per questi fratelli e sorelle in umanità che con la loro stessa vita mettono in questione tante nostre certezze e, dunque, è disposto a interagire con essi. Perché senza i poveri nulla si può fare sulla frontiera della povertà: una lezione che non finiremo mai di imparare. Che cosa fare? Ho più domande che risposte, caro signor Antinori. Ma una cosa l’ho ormai chiara: non c’è una ricetta buona per ogni persona e ogni situazione, ma c’è un metodo. Ed è davvero prezioso. Che cosa fare, dunque? Stare accanto e insieme, come si può e fin dove si può, senza “occupare” nessuna vita con la nostra, ma occupandosi di queste persone fragili e coriacee e lasciando che loro si occupino di se stesse, finché ce la fanno. Un suggerimento non richiesto, ma profondamente sentito, lo dedico infine a chi guarda da lontano e, guardando e passando, giudica sia chi tende la mano (o non la tende affatto) sia chi la offre per soccorrere, dare, rialzare. Ecco, credo che almeno due degli strumenti che ho evocato poco fa – e che nel loro insieme potremmo riassumere nei concetti di «competenza umana» e di «carità di cristiana» – sono necessari anche a questi spettatori non paganti e giudicanti. Penso a pazienza e rispetto. Se non si sanno mettere in campo pazienza di capire e autentico rispetto umano, meglio tacere. E, magari, provare ad ascoltare la coscienza, cominciando a fare i conti con essa.