Proteste, repressione, disattenzione. Accanto all'Iran ma per davvero
Dopo più di quattro mesi di brutale repressione, di condanne a morte e di minacce alle famiglie di chi protesta, non sorprende che le manifestazioni di massa divampate in Iran dopo la brutale uccisione della giovane Mahsa Amini, colpevole solo di portare il velo in modo «inappropriato», stiano diminuendo. Non che siano finite, ma sono ormai molto più sporadiche e limitate. Il regime di Teheran contava su questo: tener duro nella repressione, spaventare con condanne a morte di giovani, tentare di dividere chi protestava con qualche vaga promessa di maggiore tolleranza, ammettere che l’economia va male, ma ribadire che le proteste la peggiorano e che per questo vanno stroncate, ripetere allo sfinimento la retorica dei complotti contro la gloriosa rivoluzione islamica.
Pochi giorni fa, nella sua ultima apparizione pubblica a Qom, la “città santa” sciita iraniana, il leader supremo, l’anziano e malato ayatollah Ali Khamenei sembrava essere ritornato più spavaldo: ha parlato delle proteste come di un tentativo ormai fallito di distruggere la Repubblica islamica da parte dei «nemici sionisti», delle monarchie arabe del Golfo e dell’Occidente. Se nelle ultime settimane egli aveva più volte distinto fra chi protestava perché pagato dai nemici per diffondere il disordine e chi era solo «deviato» dalla propaganda degli stessi, questa volta è apparso più duro. E chissà se avrà seguito effettivo la sua apertura sull’hijab. Il velo femminile è obbligatorio perché prescritto dalla sharia, la legge religiosa islamica, aveva ribadito. Ma chi lo indossa mostrando i capelli non deve essere considerata una “nemica della religione”, una bad-jihab, ossia una mal velata, ma solo una «velata debolmente».
Differenza incomprensibile per chi non frequenti i minuti distinguo giuridici della sharia, ma in realtà potenzialmente molto importante, che potrebbe portare alla fine degli arresti in fragranza per un gran numero di donne. Non che questo cambi le cose, a ogni modo. Ascoltando le voci dei conservatori al potere in Iran, è evidente come a loro sfugga la dimensione reale dello scontento della propria popolazione. E sembra quasi che credano davvero che accentuare la vecchia propaganda ideologica possa ridurlo: quando è proprio la sterile ripetizione di quella ideologia che buona parte del popolo iraniano non sopporta più, stretto com’è fra una crisi economica brutale e l’isolamento internazionale a cui lo costringe la politica di Teheran.
Ma se i vertici iraniani sembrano incapaci di cambiare la loro prospettiva d’analisi, è anche evidente l’incertezza dell’Occidente. Nessuno ha mai pensato – e fortunatamente va detto, visto i precedenti storici – che fosse venuto il momento per tentare un cambio di regime dall’esterno, illusione pericolosa a cui spesso hanno guardato in passato gli Stati Uniti. Ma vi è stata anche una forte incertezza su come rispondere alla brutale repressione di questi mesi, dato che rimanevano sullo sfondo i negoziati per il programma nucleare iraniano. Dopo lo sciagurato ritiro unilaterale deciso nel 2018 da Donald Trump dall’accordo firmato nel 2015 da Barack Obama, il presidente Biden ha infatti cercato di ripristinarlo, andando vicino a nuova firma, ma senza riuscire a chiudere un nuovo compromesso.
L’Unione Europea, con tutte le sue fragilità e con il suo scarso peso negoziale, tiene in qualche modo aperto questo tavolo; qualcuno si era anzi illuso che un Iran più debole potesse essere un negoziatore più accomodante. Non è stato così, anche perché la guerra in Ucraina, oltre a macinare senza tregua un numero spaventoso di vite umane, assorbe attenzioni, risorse e armamenti. E dimostra anche quanto i droni iraniani, impiegati massicciamente dai russi, possano far male. La questione iraniana, che riguardi il nucleare o i diritti umani, non sembra allora prioritaria.
Di fatto finita ai margini del nostro interesse come la ricostruzione siriana, la guerra nello Yemen, il popolo afghano abbandonato al suo destino, e tante altre ferite del sistema internazionale.
Se il lottare per ottenere la pace non viene più considerato solo “utopico” ma ha assunto addirittura un suono quasi sinistro, di resa o peggio di connivenza con il nemico, non stupisce come tutto ciò che non sia guerra “vera” anche se colpisce l’ambiente e intere popolazioni (lontane) nella loro vita quotidiana risulti “non prioritario”. L’Iran, le sue coraggiose donne e i suoi cittadini, secondo questa logica, possono allora aspettare. In fila, assieme a tanti altri popoli lasciati in stand-by fino a quando avremo tempo di dedicargli le nostre attenzioni. Per chi ha coscienza non è e non sarà così.