Opinioni

Editoriale. Abu Mazen e il futuro di Gaza: prima o poi ci si dovrà parlare

Marco Impagliazzo lunedì 2 dicembre 2024

«Credo ancora nella pace e nell’azione politica»: le parole di Abu Mazen ieri ad Avvenire sembrano venire da un’altra epoca, un tempo nel quale il dialogo e le relazioni internazionali funzionavano, almeno un po’. Oggi tutto è molto più caotico, violento e imprevedibile. Eppure, queste parole portano con sé una saggezza antica: prima o poi si tornerà a parlare, a confrontarsi su come vivere insieme. È un anziano che parla preparandosi a incontrare papa Francesco e il presidente Mattarella, anche loro avanti negli anni. L’incontro di tre anziani potrà smuovere la coscienza globale e convincere un mondo attanagliato dalle passioni atroci di guerra e contrapposizione? È questa speranza che spinge Abu Mazen a credere anche in Donald Trump. La situazione che abbiamo sotto gli occhi è deprimente: Gaza distrutta e ridotta a un cumulo di macerie, le vittime civili innumerevoli, migliaia di orfani che gridano il loro dolore. Su questo giornale Nicoletta Dentico avverte addirittura che la Striscia è divenuta «un micidiale focolaio di batteri intrattabili» che contagerà tutti, in primis gli israeliani. Non si può credere di essere sani in un modo malato, disse il Papa riferendosi alla pandemia: vale anche per la guerra infinita del Medio Oriente che sta trasformando tutti in peggio. Si discute sulla magnitudine del disastro, sul numero dei morti e dei feriti, sulla definizione delle atrocità. Le parole vengono usate come armi: genocidio, etnocidio, atrocità di massa, crimini contro l’umanità...
Ma nessuno scontro verbale serve ad aggiustare ciò che sembra definitivamente rotto: la fiducia nella possibilità della pace.
Spesso si è tacciata l’Autorità nazionale palestinese (Anp) di corruzione e di inefficacia: un organismo inutile, invecchiato, passivo. Eppure, l’Autorità resta l’unico rappresentante palestinese con una legittimità. Come tutti, anche l’Autorità si muove nel contesto delle relazioni tra governi: Abu Mazen cita l’Arabia Saudita, i Paesi arabi fratelli, l’Onu, gli Stati Uniti, l’Italia. Sembrano sogni tramontati ma si basano su ciò che resiste: le risoluzioni – purtroppo non applicate – dell’Onu e le regole di convivenza globale. Queste ultime sono sfidate da chi vuole riformarle con violenza, abbatterle o scavalcarle. Accade ove classi dirigenti sovvertitrici aggrediscono i loro vicini violando le frontiere, arrogandosi il diritto di ridisegnare influenze, annettendo terre altrui, occupando spazi, spostando confini.
Abu Mazen viene da un mondo antico nel quale contavano il negoziato (magari duro) e il compromesso. Nelle sue parole si legge in filigrana il rammarico di aver perso molte occasioni per ottenere la pace. Resta solo il desiderio di una sovranità sul 22% del territorio, come firmato dalle parti. Eppure, si arriva oggi a non riconoscere neanche quella firma e – in maniera eversiva – si afferma la propria sovranità su tutto, giungendo a eliminare di fatto i palestinesi. Si tratta di un estremismo violento che alla fine si può rivolgere contro i suoi stessi autori. L’attuale governo israeliano è infatti ostaggio di un gruppo di suprematisti (nemmeno maggioritari) che in molte occasioni spingono i civili ad armarsi avvalorando una propaganda colonizzatrice. Ciò non può che avvantaggiare una narrazione “coloniale” dello Stato ebraico e si ritorce contro Israele stesso, in un pericoloso vortice che coinvolge tutto il Sud Globale. Ma nessun Paese è un’isola.
Abu Mazen spera nella giustizia internazionale: si tratta di un processo lungo che però l’Anp ha fortemente voluto, aderendo alla Corte penale a fine 2014, facendo da allora ogni tipo di pressione possibile. Si tratta di un risultato ascrivibile all’Autorità palestinese e avvenuto senza che Israele si rendesse conto del pericolo reputazionale che stava correndo. Il premier Benjamin Netanyahu ha fatto appello, riconoscendo implicitamente l’autorità della Corte che prima disdegnava. È comunque chiaro che la soluzione della giustizia internazionale è altra cosa rispetto alla pacificazione e ai processi di mediazione, ma terrà viva la questione nelle istanze internazionali. Ciò che colpisce negativamente dell’intervista di ieri è che il vecchio leader non citi mai il 7 ottobre e le sue atrocità. Inoltre, resta aperta la questione che i palestinesi devono ancora trovare l’unità politica: le divisioni intestine hanno diminuito in questi anni l’impatto delle loro richieste e lasciato troppi spazi ai nemici della pace.