Opinioni

VITA. Aborto e libertà di obiezione: il coltello nella piaga

Francesco Ognibene sabato 25 maggio 2013
Troppi. Trentacinque anni dopo il varo della legge 194, sono ancora troppi. Gli aborti? No, gli obiettori. Così almeno la pensa un composito schieramento di sigle associative, sindacali e politiche che nel nome dei diritti e delle libertà individuali stanno reclamando a gran voce in questi giorni che venga limitato il ricorso all’obiezione di coscienza da parte di medici, anestesisti e personale infermieristico. Troppi obiettori – è il loro ragionamento – ostacolano e talvolta impediscono persino la possibilità di ricorrere all’aborto nei tempi previsti dalla legge, incentivando di fatto la scorciatoia della clandestinità e negando un diritto che sarebbe scritto nella legge (anche se, cifre ministeriali alla mano, quel 30% di medici italiani non obiettori dovrebbe essere più che sufficiente a garantire il servizio pubblico quand’è richiesto). L’allarme di questo fronte ostile all’obiezione, assai determinato e mediaticamente ben appoggiato, è tale che la Cgil ha presentato a gennaio un ricorso al Consiglio d’Europa contro il diritto codificato dall’articolo 9 della legge perché tutto l’onere degli aborti finisce per «ricadere su un numero di medici molto basso, per i quali si prefigura un rischio di limitazione della loro capacità professionale». Che un sindacato si batta per limitare un diritto riconosciuto per legge ai lavoratori e fondato sulla Costituzione – come ha ricordato il Comitato nazionale di bioetica con un suo parere del luglio 2012 – è uno di quei paradossi che inducono inevitabilmente a pensare ad altri motivi alla base di un’iniziativa tanto strampalata (e che rischia di andare in porto se l’Italia non difenderà come deve un diritto costituzionalmente garantito: e qui si vedrà anche la qualità istituzionale del servizio reso dall’attuale signora ministro degli Esteri). Non è, infatti, il solo aspetto che stona in questo snodo eticamente e culturalmente nevralgico nella vita pubblica del nostro Paese. A preoccupare tutti – e non solo chi attacca un aspetto cruciale di una legge peraltro agitata spesso come un’intoccabile «conquista civile» – dovrebbe essere il fatto che non si riesce a prosciugare davvero il grande lago di dolore costituito dalle migliaia di aborti ancora praticati ogni anno in Italia (110mila nel 2011: un’intera città popolosa quanto Terni, Vicenza o Trento che manca all’appello in un solo anno). Né può bastare l’argomento del costante calo delle interruzioni di gravidanza: perché il vero diritto non è a comprare una pillola variamente abortiva, ma a poter accogliere e crescere i figli che si desiderano senza veder conculcato da qualunque causa il «diritto alla procreazione cosciente e responsabile» riconosciuto dalla stessa 194 nella prima riga dell’articolo 1.Anziché dialogare costruttivamente insieme su come vedere finalmente stimato «il valore sociale della maternità» e tutelata «la vita umana dal suo inizio», come prescrive il primissimo comma della legge, ci si spende perché l’obiezione a una pratica con la quale si schiaccia una vita umana inerme venga limitata da qualche inimmaginabile cavillo, magari col bollo della burocrazia europea.Non è una questione di "steccati", ma di senso comune: che spazio, che valore, che significato vogliamo attribuire oggi nel nostro Paese alla vita di un bambino che con sé porta il solo diritto di nascere? E come possiamo non sentirci tutti mobilitati dal fatto che un numero crescente di aborti sia causato da ristrettezze economiche?A 35 anni dal varo di una norma inevitabilmente associata al tragico bilancio di 5 milioni e mezzo di "vite mancate", c’è chi insiste a spostare l’attenzione sui "nuovi diritti" non volendo vedere che ce n’è uno – elementare e universale – che li tiene in piedi tutti, e un altro – quello a esercitare una civilissima e laicissima obiezione a motivo delle proprie più profonde convinzioni, confortate da incontrovertibili evidenze della scienza – scolpito allo scopo di proteggerlo ricordando pubblicamente all’intera società che la vita resta sempre un valore primario. Proprio l’assedio ricorrente alla scelta degli obiettori rivela un deragliamento linguistico e semantico, che ha portato ad annoverare nella categoria dei diritti la facoltà di abortire, che diritto non è né può diventarlo, tentando di zittire l’obiezione di coscienza: la 194 infatti depenalizza in condizioni ben determinate e circoscritte una pratica letale, che resta sempre vietata al di fuori dei termini dettagliatamente precisati dal legislatore. C’è nel cuore della nostra società una piaga ancora aperta, che è urgente ripulire e curare. Definirla un "diritto" talmente indiscutibile da oscurare tutti gli altri è un inganno, che finisce per alterare nelle coscienze la verità più semplice e solare che esista.