Il premio Nobel per la pace 2019. Abiy, cambio di paradigma e non solo per l'Africa
Lo chiamano, senza troppi riguardi per la scaramanzia, il Kennedy africano. Lo definiscono un mix tra Che Guevara e Macron. In realtà il premier etiope Abiy Ahmed, classe 1976 e centesimo Nobel per la pace, è molto di più. Può diventare il leader della nuova Africa del terzo millennio. Ex militare, laureato all’università di Addis Abeba, è di etnia oromo, maggioritaria in Etiopia, ma ai margini da sempre perché schiavi affrancati.
La sua nomina era giunta nel 2018 dopo anni di proteste contro il governo della componente tigrina del partito unico al potere, che aveva rovesciato nel 1992 il regime marxista di Menghistu, etnia Amhara come Hailè Selassie, il Negus a sua volta deposto e ucciso dai comunisti. Ci si aspettava da Abiy una politica revanscista pro-Oromo, invece nei primi quattro mesi di governo è passato alla storia per aver ordinato il rilascio di migliaia di prigionieri politici, legalizzato i gruppi di opposizione classificati come “terroristici”.
E per aver avviato i negoziati con l’Eritrea, con cui l’Etiopia era ufficialmente in guerra dal 1998, accettando le condizioni di pace e siglando uno storico accordo nel luglio 2018. Infine, ma non è la decisione meno importante, ha assegnato in una società patriarcale metà dei ministeri alle donne, una donna è diventata per la prima volta presidente della Repubblica e un’altra guida la Corte Suprema. Oggi, grazie alla politica del premier etiope, una vera rivoluzione gentile, il Corno d’Africa può diventare rapidamente una grande area di pace.
Nulla è facile o scontato, ma le prospettive di sviluppo sono impressionanti. Anche se minacciato dai cambiamenti climatici e colpi di coda passatisti, per gli esperti questo angolo del pianeta può diventare l’area a maggiore crescita nel prossimo decennio. In Europa Governi, Ong e quella piccola fetta dell’opinione pubblica che conosce l’Etiopia plaudono e parlano di premio significativo e carico di speranza. È il secondo anno consecutivo che il Nobel più prestigioso viene assegnato a un personaggio africano, dopo che nel 2018 andò a Denis Mukwege, straordinario medico congolese. Da Oslo arriva un messaggio anche ai media: esiste un’altra Africa positiva, fiera, che si batte per la pace, lo sviluppo e la libertà.
Che cambia sa operare un cambiamento di paradigma. Bisogna finalmente riconoscerla e raccontarla perché merita tutto il sostegno dell’opinione pubblica globale. Possiamo definirlo un Nobel di incoraggiamento all’Africa, in particolare al Corno a cui noi italiani dovremmo guardare con maggiore interesse per legami storici e umani mai spezzatisi. Ma Abiy Ahmed, così apprezzato in Occidente, corre anche il rischio di diventare il Gorbaciov africano. Un grande riformatore che entrerà nei libri di storia per i processi avviati eppure poco amato in patria. In Etiopia infatti la conflittualità tra le etnie è cresciuta con un forte aumento di sfollati interni. E la percezione di insicurezza nel colosso africano, 108 milioni di abitanti, è aumentata.
Questa è dunque la sfida del Nobel etiope, nato musulmano e convertitosi (per amore) al cristianesimo: convincere Etiopia e Africa a mettere da parte gli interessi etnici e di parte per guardare al bene comune. Solo così si può creare vero sviluppo nel continente. Solo così, uniti, si affrontano le piaghe della povertà, della malnutrizione, dell’alto tasso di abbandono scolastico. L’Etiopia ha già comunque una grande lezione di civiltà da impartire all’Occidente e agli altri Paesi africani. È infatti lo Stato che accoglie più rifugiati dai Paesi vicini, oltre 900mila persone. Infine Abiy deve contribuire a sciogliere il nodo Eritrea.
Non è stato infatti premiato con il Nobel l’altro capo di Stato che ha siglato la pace, il presidente eritreo Isaias Afewerki. Non era possibile. A distanza di un anno nulla è cambiato nel piccolo Stato confinante con l’Etiopia oppresso da una lunga dittatura. L’esodo di giovani profughi che provoca morti e sofferenze lungo le rotte migratorie non si è arrestato perché il servizio di leva illimitato non è stato abolito, la penuria di cibo nelle campagne è cresciuta, la democrazia non è stata ripristinata, i prigionieri politici non sono stati liberati e in estate sono state per giunta chiuse le strutture sanitarie cattoliche, le uniche nelle aree rurali, e alcune scuole della Chiesa in ossequio ai dogmi maoisti di regime.
Ad Abiy finora l’esperienza e l’astuzia di Afewerki sono state utili per fronteggiare i nemici interni. Ma ora il giovane premier Nobel per la pace deve giocare in Africa in un ruolo nuovo, magari persino convincendo il vecchio dittatore di farsi da parte pacificamente.