A proposito di autonomie differenziate e di urgenti responsabilità comuni
Caro direttore,
da qualche tempo è ricorrente, nella stampa e nella televisione, l’uso dell’espressione governatori per indicare quelli che in realtà, sulla base del fondamento legislativo delle norme sulle autonomie regionali, dovrebbero essere chiamati i presidenti delle Giunte regionali. Si tratterebbe, in apparenza, di uno dei tanti “americanismi” che ormai imperversano nella lingua italiana e che fanno sì che se un comune cittadino intende capire il senso di quello che si scrive debba tenere sempre sotto l’occhio, accanto al giornale, il dizionario inglese (e c’è chi prospetta che in futuro occorrerà anche il “dizionario americano”, e cioè statunitense, date le sempre più accentuate divaricazioni fra il “parlato” degli Usa e quello della Gran Bretagna) Raramente usato in passato, il termine “governatore” è del tutto assente nel linguaggio giuridico dello Stato italiano unitario e poi nella Costituzione e nelle leggi. Perché mai, dunque, questa moda che, arbitrariamente, trasforma i presidenti in governatori? Non si tratta di una questione, come suol dirsi, di lana caprina. Dietro l’uso abusivo del termine sta in realtà la tendenza – ora consapevole, ora inconscia – a estendere i poteri delle regioni e conseguentemente dei loro presidenti (potrebbero seguire poi anche gli assessori, che potrebbero essere tentati di farsi chiamare “ministri”...). Chi scrive è convinto regionalista – salvo guardare con preoccupazione a talune “derive” che qua o là si riscontrano –, ma ritiene – Costituzione alla mano – che l’uso improprio del termine “governatore” nasconda un’insidia che è bene mettere in evidenza: la tendenza, cioè a trasformare, del tutto arbitrariamente, l’Italia da Stato unitario a “Stato federale”, a partire da un confronto con un modello, quello statunitense, che non è assolutamente confrontabile con la realtà italiana, dato che negli Usa vi sono Stati (così legittimamente chiamati) che hanno poteri, norme interne, risorse non riconducibili tutti allo Stato. Se, per ipotesi, l’Italia seguisse questo modello i quasi quaranta milioni di abitanti della California verrebbero equiparati a quelli del Molise! È perfettamente legittimo chiedere la trasformazione dello Stato italiano in Repubblica federale come, del resto legittimamente, non pochi uomini del Risorgimento hanno, nel loro tempo, auspicato. Ma, per questo, occorre seguire la via diritta della riforma costituzionale e non la via distorta delle false etichette... La questione potrà sembrare di scarso rilievo; ma, dietro questa deformazione televisiva e giornalistica – quella appunto che trasforma i presidenti in governatori – sta una concezione di autonomia (in contrasto con quella prevista dalla Costituzione) che nulla ha a che fare con l’autarchia da taluni auspicata per le Regioni e surrettiziamente introdotta nel linguaggio politico dai sostenitori della “sovranità” regionale: senza, a dire il vero, che i paladini di questa visione abbiano il coraggio di scoprire le carte proponendo, insisto sul punto, una riforma della Costituzione in senso federalista. Sarebbe dunque auspicabile – per il rispetto della Costituzione, ma soprattutto della realtà delle cose – che i presunti governatori non si autoproclamino tali e tali non si facciano chiamare così da malaccorti intervistatori. E se la “libertà di stampa” consente – senza con questo commettere reati... – di prendere «lucciole per lanterne», e cioè chiamare governatori quelli che tali, nel nostro ordinamento, non sono (eccettuato il caso, ben diverso, del Governatore della Banca d’Italia, eredità risorgimentale) almeno la tv di Stato, e di uno Stato che ha Regioni dirette da presidenti e non da governatori avrebbe il dovere morale di richiamare questa realtà e i rischi richiamati, forse promuovendo per i propri cronisti una piccola lezione di Diritto costituzionale.
Sarà difficilissimo tornare indietro, caro professor Campanini. Comprendo molto bene queste obiezioni “di merito”, che in gran parte sento anche mie. Eppure penso che continueremo a parlare di “governatori”, sui media e non solo. E non necessariamente con secondi fini, certo non noi di “Avvenire”. In Italia abbiamo cominciato a usare questo termine all’indomani della riforma che ha introdotto l’elezione diretta dei presidenti di Regione. Ed è accaduto perché si tratta di un termine innegabilmente efficace sul piano giornalistico. Efficace sia in sé sia come sinonimo di “presidente”. In uno stesso articolo o titolo può essere utilizzato per evitare ripetizioni (o almeno ripetizioni ravvicinate) e confusioni di persona e di ruolo. Come sappiamo bene, infatti, il nostro sistema è pieno zeppo di presidenti, e avere nella bisaccia lessicale espressioni che consentano di identificare e distinguere con maggiore precisione almeno alcuni di questi rappresenta, per chi fa il nostro mestiere, quantomeno un’interessante opportunità. Del resto si sono rivelate inutili anche sensatissime, analoghe obiezioni contro l’importazione del termine “premier” che nel sistema britannico ha un ruolo simile, ma non del tutto equivalente a quello del presidente del Consiglio dei ministri italiano. La sintetica efficacia della parola e la sua utilità per distinguere facilmente il presidente che lavora a Palazzo Chigi (da capo del Governo) dal presidente che lavora al Quirinale (da capo dello Stato) hanno consolidato l’abitudine.
Un’annotazione ulteriore, però, vorrei farla anche sul merito della riflessione su regionalismo e federalismo. Non siamo uno Stato federale e non lo diventeremo solo a forza di parole, anche se le parole sono pietre e costruiscono effettivamente il contesto in cui maturano i cambiamenti. Ma le parole non bastano, è sufficiente pensare a ciò che è accaduto con la Repubblica del maggioritario e del premierato (la cosiddetta Seconda Repubblica) che – era (e un po’ ancora è) – padrona delle parole dei politici e dei giornalisti, ma di fatto è stata spazzata via dal voto referendario del 4 dicembre 2016 che ci ha riportato in una Repubblica del proporzionale e con capi dell’esecutivo eletti dalle Camere senza aver avuto il nome “dipinto” sui simboli elettorali (l’attuale e cosiddetta Terza Repubblica)...
Detto questo, se fossi nato nell’Ottocento, probabilmente sarei stato federalista anch’io. Ma poiché sono nato intorno alla metà del Novecento e ho vissuto, da cittadino e da cronista, l’esperienza della Repubblica Italiana «una e indivisibile» eppure segnata nei suoi territori da diversità (anche splendide e positive) e disuguaglianze (indotte, e sempre più incomprensibili e insopportabili) e poiché ho condiso e condivido sino in fondo l’impegno per la costruzione della comunità di popoli e Stati che ora chiamiamo Unione Europea, oggi sono e mi dichiaro federalista sul piano continentale e regionalista sul piano nazionale.Vorrei, beninteso, come tanti, un regionalismo migliore di quello che è stato definito all’inizio di questo secolo con la riforma del Titolo V della Costituzione (e, dunque, con competenze più nettamente attribuite al governo centrale e agli enti locali). E comunque non sono affatto favorevole a un’autonomia differenziata – quella, caro professore, che nella lettera viene definita «autarchia» – della quale siano titolari soltanto alcune Regioni (l’hanno richiesta , come si sa, la Lombardia e il Veneto per via politicoreferendaria e l’Emilia Romagna per via politico-istituzionale). Sarebbe una scelta potenzialmente esplosiva nell’attuale condizione socio-economica del nostro Paese. Ora abbiamo bisogno di accelerazioni solidali da quattrocentristi in staffetta, dosando rapidità e resistenza, e non ci servono fuochi d’artificio confezionati con i candelotti di dinamite dell’ognun per sé. Sul punto, caro professore e amico, siamo d’accordo tra di noi e con i tanti cittadini e cittadine – collegati dalla Rete dei Numeri Pari e da un Comitato ad hoc – che proprio oggi, in piazza Montecitorio e in tante altre piazze italiane diranno che questo che stiamo vivendo non è tempo di autonomie differenziate, ma di urgenti responsabilità comuni.