Opinioni

Il 69° governo dell’era repubblicana. A passo di carica verso le nubi

Marco Tarquinio sabato 22 ottobre 2022

Il più annunciato e contrassegnato dei governi dell’Italia politica del Terzo millennio è nato ieri sera in un batter d’occhio formale. E già stamane la squadra ministeriale convocata da Giorgia Meloni si metterà a lavoro. Week-end più di lavoro che di brindisi. Per l’orizzonte denso di nubi sull’Italia del 2022 e più ancora del 2023 e per la comprensibile fretta della nuova presidente del Consiglio di chiudere la stagione delle convulsioni post-voto.

Innescate soprattutto dalle mosse fatte e dagli agguati subiti da Silvio Berlusconi, cioè dal capo del partito – Forza Italia – che da primo e senza pari è diventato la terza forza di un’alleanza conflittuale in cui avrebbe dovuto e ancora dovrebbe incarnare l’anima stabilizzatrice e moderata, capace di far dimenticare in Italia e in Europa il fatto che essa è ormai manifestamente imperniata sulle due destre – Fratelli d’Italia e Lega – che sono all’opposizione di quasi tutto sulla scena continentale e che, a Roma, si sono già attribuite di forza le presidenze delle due Camere.

Il governo Meloni, insomma, nasce a passo di carica. L’incarico di formare l’esecutivo, la presentazione della lista dei ministri e il giuramento degli stessi nelle mani del Capo dello Stato si stanno infatti susseguendo a ritmo accelerato e con modalità senza precedenti. E questo è possibile sia per l’ampiezza della maggioranza che dà base al 69° governo dell’Italia repubblicana sia per l’indole di Meloni che non ha inteso perdere un minuto in girandole di incontri con parti politiche e sociali di cui conosce a memoria posizioni e richieste e che, poiché l’ascolto dovrebbe essere un’attitudine chiave di chi studia da statista, ha probabilmente sfruttato al meglio anche in tal senso le settimane del dopo-voto, fatte più lunghe dalle procedure d’insediamento del nuovo Parlamento.

A Mario Draghi uno dei premier più stimati, in patria e (soprattutto) all’estero, succede così – per volontà popolare – la sua unica grande oppositrice, la fondatrice di Fdi, prima donna a Palazzo Chigi e forse tra i capi di governo più spiati con curiosità e al tempo stesso più gravati di pregiudizi per le radici di un impegno politico che affondano nell’humus postfascista e che persino la collegano ostentatamente (e videodigitalmente) a esponenti vecchi e nuovi dell’ultradestra europea.

Ma Giorgia Meloni, pur giovane, è una politica esperta e non un’invasata, anche se il gran bottino di consensi conquistato nelle urne del 25 settembre - più di cinque volte quello raggranellato nel 2018 - dice soltanto del passato (una opposizione convincente) e non del futuro. E l’abolizione dell’idea stessa che ci sia ministerialmente una “transizione ecologica” da assicurare sembra progettare più ieri, che oggi e domani.

Il consenso del 25 settembre non basta, è logico, a garantire del successo e del realismo utile al Paese dell’azione del governo Meloni da qui in avanti. Ma proprio questa è la sovrana sfida che le sta davanti, e che ci riguarda tutti, proprio tutti.