Un pranzo è un pranzo: anche se a capotavola c’è il Papa e tutt’intorno una rappresentanza del collegio cardinalizio. Niente di solenne, intendo dire, se uno pensa alle mensa dell’altare e allo spezzare, insieme, di un altro pane. Anche le parole di saluto, alla fine del convivio, girano intorno a un grazie, e quasi si adagiano sul clima di una naturale cordialità. È stato più o meno questo alla fine anche il copione dell’incontro – a tavola, nella cornice, questa sì maestosa della Sala Ducale – con il quale Benedetto XVI ha voluto ringraziare i suoi «amici cardinali» per aver condiviso con lui la ricorrenza degli 85 anni di vita e dei sette anni d’inizio pontificato. Ma parlando a braccio al Papa è venuta un’espressione che – è il caso di dire – ha cambiato le carte in tavola. Ha parlato di una «squadra», della «squadra» del Signore, materia poco approfondita nei manuali di teologia, ma immagine-lampo capace di sbaragliare ugualmente il campo. Di questa compagine tutta speciale il Papa, nelle poche parole pronunciate, ha mostrato subito la divisa fondamentale: la gioia di farne parte. «Siamo nella squadra del Signore, quindi nella squadra vittoriosa».Speciale questa squadra lo è in molti modi: parte, innanzitutto, con il risultato acquisito, una vittoria finale che non può mancare, ma che tuttavia non pone al riparo dalla necessità di lottare. Tutt’altro, perché l’avversario che si ha di fronte gioca pesante, «vuol dominate il mondo» e non bada a mezzi per farlo, mettendo in campo i mezzi cruenti di sempre, come la violenza, ma anche affilando armi più sottili che mirano a truccare in bene le carte del male. La squadra del Papa sa bene di dover giocare tutte le proprie partite su un terreno ricco di insidie e contro un avversario che non fa sconti. La vittoria finale è una promessa da guadagnare sul campo, minuto per minuto, senza risparmio di energie. Rosso-porpora è il colore delle punte di diamante della squadra che, accanto al Papa, è schierata nello «schema» di sempre: dare spazio al Vangelo, per costruire trame di vita sempre più incisive a avvolgenti, portare scompiglio nelle difese erette a baluardo del male.Accanto alla «squadra» che a lui ha affidato le redini della Chiesa, Papa Benedetto ha teneramente richiamato la forza che viene da una «compagnia di grandi amici» che stanno tutti insieme con il Signore: proprio il volto e lo spirito di chi si sente impegnato per una partita decisiva. Una partita da giocare in nome dell’uomo, e senza possibilità di resa anche quando è l’uomo stesso a tirarsi in disparte, o a schierarsi dalla parte sbagliata, o a fare i passaggi più grossolanamente fuori misura. In questo senso anche una squadra di tal genere può assaporare l’amaro della sconfitta. E nessuno può esultare quando a perdere è l’uomo.L’immagine della squadra è servita così a rappresentare la necessità di rinserrare le fila; di ricominciare, riprendere le forze e non lasciarsi scoraggiare se, ancora una volta, l’avversario si è fatto vivo e ha portato attacchi dei suoi: frontali o anche più subdoli, con il male sciaguratamente travestito sotto altre spoglie.Niente di nuovo su un terreno di gioco che la squadra rosso-porpora, sotto la guida del suo indiscusso «capitano» in bianco, conosce palmo a palmo. E questa squadra è poi davvero speciale anche perché è fatta di tanti altri colori. E schiera, accanto alle punte avanzate, una moltitudine di ogni tipo di gregari e mediani, talenti noti e nascosti. Gente che non vuol saperne di perdere malamente. Pur sapendo, allo stesso modo della squadra rosso-porpora, di giocare per un risultato già acquisito. Giocano o no in quella che Papa Benedetto ha chiamato la «squadra del Signore»?