Sul decreto Franceschini un dibattito aperto. Le sfide per i «nuovi» Beni culturali
Non è casuale che, nei giorni seguiti alla conferenza stampa in cui Franceschini ha presentato le linee-guida del progetto, il dibattito si sia concentrato principalmente sul destino del soprintendente, che della tutela e promozione del patrimonio italiano è stata a lungo la figura centrale. Alto funzionario pubblico e insieme studioso autorevole, il soprintendente ha costituito la chiave di volta di un sistema che risale, in sostanza, al periodo post-unitario, radicandosi prima nella Pubblica istruzione e poi evolvendosi, a partire dal 1974, in un ministero autonomo, quello appunto dei Beni e delle attività culturali. Una vicenda estremamente complessa dal punto di vista delle attribuzioni di competenza (da qui la necessità, indiscutibile, di semplificare e razionalizzare): impossibile dimenticare, tra l’altro, la perdurante influenza della risistemazione operata nel 1939, in piena epoca fascista, dal ministro Giuseppe Bottai. Burocrazia e ricerca del consenso, volontà di conservazione e rigidità ideologiche, culto del passato e sperimentazione sono gli elementi che si rincorrono fino a oggi, quando un altro fattore sembra avere la meglio, e cioè la necessità di onorare gli impegni della spending review. Un compito che – occorre ricordarlo – Franceschini eredita dai suoi immediati predecessori, ma che nondimeno il ministro in carica pare intenzionato a onorare con una dose di decisionismo adeguata alle aspettative dell’esecutivo di cui fa parte.
Ecco dunque che, nelle intenzioni della riforma in corso, le Direzioni regionali dei Beni culturali si trasformano in Segretariati regionali del ministero, le diverse Soprintendenze fanno capo direttamente alle rispettive Direzioni centrali, in un processo di riduzione del personale dirigenziale che coinvolge con criteri analoghi anche archivi e biblioteche. Se alcuni aspetti, tutt’altro che marginali, restano da chiarire (nel documento d’indirizzo si parla di «due Direzioni trasversali di supporto, una per l’organizzazione e il personale e una per il bilancio», che al momento appaiono di difficile collocazione), appare fin d’ora abbastanza delineato il quadro relativo alla costituzione di quello che, con una certa enfasi, viene presentato come «il sistema museale italiano». Un sistema a due velocità, nel quale a venti musei viene riconosciuta la qualifica di «ufficio dirigenziale», mentre le altre realtà espositive vanno a confluire nei poli museali regionali, di nuova formazione. Il nodo principale riguarda le venti strutture di eccellenza, tra le quali rientrano per esempio l’area archeologica di Roma, Colosseo compreso, e la Reggia di Caserta, l’Accademia di Venezia e la Pinacoteca di Brera (per la quale nel 2012 è stata varata una Fondazione rimasta finora lettera morta). I direttori di questi e delle altre strutture in elenco potranno essere scelti, sempre previa «selezione pubblica», anche al di fuori della cerchia dei dipendenti del Mibact, e anche all’estero. Sono loro, insomma, i manager ai quali guarda con sospetto perfino un uomo come Paolucci, forse il più manageriale fra i grandi soprintendenti della nostra storia recente.
La questione, ripetiamolo, è seria, perché il profilo classico del soprintendente (incaricato dallo Stato di agire come garante ultimo dell’integrità del patrimonio entro i confini di un determinato territorio) rispondeva a un’impostazione ben precisa, che riconosceva l’assoluta centralità della competenza storico-artistica, subordinando ad essa ogni altra preoccupazione. La necessità di portare a reddito il sistema museale è invece preminente nel disegno proposto di Franceschini, per esplicita ammissione dell’interessato. Resta da capire come le ragioni, comprensibili, del profitto possano armonizzarsi con quella della tutela e della valorizzazione. Non si vuol sostenere che un’alleanza del genere sia deprecabile, però non ci si può neppure accontentare di una dichiarazione di intenti. Serve una visione, di nuovo. Serve un progetto che vada oltre la contabilità. Anche perché ci riferiamo a un patrimonio dal valore inestimabile, per definizione restio a ogni tentativo di quantificazione.
In un panorama tanto accidentato, meriterebbe forse maggior attenzione l’ultimo dei punti suggeriti dal documento diffuso dal Mibact. I temi dell’educazione, della ricerca e, in particolare, della formazione del personale rappresentano una frontiera colpevolmente trascurata. Pensiamo a quello che è accaduto nelle università durante l’ultimo decennio: i corsi di gestione dei beni culturali hanno attirato sempre più studenti, senza che a questa crescita di professionalità corrispondesse un’adeguata ricettività occupazionale. Il ministero non può assorbire tutti, d’accordo, ma dagli obiettivi che il ministero stesso si pone dipendono non solo i profili professionali delle figure di vertice (soprintendenti, manager o soprintendenti-manager che siano), ma anche e specialmente quelli di tutti gli altri operatori del settore. Per troppi laureati in beni culturali, ora come ora, l’unica strada percorribile è quella di un precariato spesso mortificante, circoscritto com’è a mansioni elementari, per le quali non sarebbe richiesta alcuna formazione specifica. Il problema non sta nella presenza di giovani curatori italiani ai vertici di importanti istituzioni internazionali, circostanza che – secondo il ministro Franceschini – autorizzerebbe a cercare all’estero, in modo speculare, professionisti di rango per i nostri musei maggiori. Va bene, a dirigere gli Uffizi può anche andare uno straniero. Basta che in biglietteria non ci siano tanti storici dell’arte mancati, ai quali il Paese della bellezza non ha saputo offrire una sistemazione migliore. È da loro, per spirito di giustizia, che la riforma dovrebbe partire.