Reportage. A Milano Chinatown "svuotata" dalla psicosi Coronavirus
Il primo a gettare la maschera è Silvio, che fa il tassista da ventisette anni: «Mai portati così pochi cinesi a Chinatown», sibila depositandomi in via Paolo Sarpi. Deserta. Negli anni scorsi, di sabato e per di più alla vigilia della Festa di Primavera, sotto queste lanterne rosse si sgomitava. Oggi incroci solo qualche italiano, incuriosito da tanto spazio. Addio pesci di carta e lingotti d’oro, girandole e draghi: il coronavirus non ha fatto una sola vittima in Italia, ma ha già annientato il Capodanno cinese. L’anno del Topo dovrà attendere che finisca l’emergenza. Le celebrazioni tradizionali che avrebbero dovuto svolgersi in questo week-end sono state cancellate da una settimana e il pranzo votivo con cui il Comune e Confcommercio hanno cercato di dimostrare che non c’è alcun pericolo a ingollare ravioli e bubble tea non ha prodotto il miracolo.
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Silvio di fortuna se ne intende – allevava cavalli da corsa, quello delle scommesse era il suo mondo – e lui giura che tra qualche settimana tutto tornerà come prima. Maggie, che vende panini primavera e pizza da Mamma Mia e che è una delle poche ristoratrici della via a rivolgere la parola ai giornalisti, fa notare però che il virus potrebbe avere una coda. «Se fosse successo in un altro periodo dell’anno, sarebbe stato tutto più semplice – spiega –, ma il Capodanno è la festa della famiglia e ci sono settecentomila nostri connazionali che sono tornati in patria e che presto torneranno qui, portando con sé non tanto un pericolo reale ma quest’atmosfera di paura».
Minimizzare, in questi casi, è un dovere patriottico - «il nostro governo è grande e sconfiggerà il virus, ha già trovato la medicina» ci rassicura con un largo sorriso il titolare di Fortuna trading, uno dei tanti negozi di abbigliamento all’ingrosso – ma se oltrepassi l’uscio dei ristoranti di Chinatown la musica cambia. Musi lunghi e nessuno che sappia più l’italiano. Quelli gentili ti rispondono seccamente che devono lavorare. Anche se i tavoli sono vuoti. Come, del resto, i corridoi del Mall, il primo e per qualche anno l’unico della metropoli lombarda.
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Uno, due, tre visitatori. «Colpa dei giornali italiani e delle c…. e che scrivete» è la reazione spazientita del commesso di uno di quei laboratori che si sono specializzati nella missione, apparentemente impossibile per noi occidentali, di riparare i cellulari. In realtà, la rarefazione da coronavirus ha colpito più i cinesi che gli italiani, come ci spiega il titolare di H&D, un altro ingrosso di tessile e abbigliamento: «Il commercio è calato, inutile nasconderlo, c’è apprensione, si evita di venire qui». Ce lo conferma anche Franco Marini che vende abiti rigorosamente made in Italy. Il suo negozio, gli storici "Magazzini Vittoria" è qui dal 1938. È sopravvissuto alle bombe americane alle jeanserie di Hubei, specializzandosi in taglie forti, un mercato che non teme la concorrenza dagli occhi a mandorla. «La via non è deserta ma il transito di acquirenti è evidentemente calato – osserva – ed è chiaro che dipenda dalla paura del virus, per quanto immotivata e irrazionale, perché tutti sappiamo che la malattia non è arrivata in Italia. Lo sappiamo, lo sanno, ma per primi i cinesi evitano di venire qui, soprattutto i giovani».
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L’assenza di pericolo è chiara a tutti – «le mascherine chirurgiche sono andate a ruba e le vendiamo su prenotazione, ma non le usano a Milano, le mandano in patria» ci dice la farmacista della via, Jennifer De Santis – eppure su via Paolo Sarpi aleggia un sentimento che è un mix di apprensione, condizionamento mediatico e isolazionismo psicologico. Peste suina e coronavirus: colpita da un uno-due in grado di tramortire un drago, la comunità cinese, che dal canto suo non ha mai brillato per facilità d’integrazione, sembra reagire agli allarmi lanciati dai media italiani con un misto di fastidio e concentrazione patriottica. Se alla prima emergenza ha replicato rivendicando la tracciabilità della materia prima – con tanto di certificati affissi alle vetrine – adesso sceglie il silenzio e la mobilitazione per aiutare i compatrioti in difficoltà: «Con gli ultimi voli da Malpensa sono partite 200mila mascherine – racconta Stefano Di Martino, ambasciatore per l’amicizia del popolo cinese, che sta promuovendo una serie di iniziative di raccolta fondi – e c’è una intensa solidarietà che coinvolge tutta la comunità milanese, una delle più importanti».
Nell’area metropolitana, infatti, vivono ottantamila cittadini cinesi e un centinaio sono i cattolici che frequentano la comunità della Santissima Trinità, nella vicina via Giusti, dov’è stata istituita una cappellania per questa nazionalità. Il nuovo responsabile è don Francesco Zhao, che viene dalla Mongolia cinese. «Preghiamo per il nostro Paese – ci racconta –; certamente abbiamo paura, ma non per noi, quanto per i nostri cari che vivono in Cina, dove il contagio è ancora possibile, anche se si sta facendo di tutto per fermare il coronavirus. Ogni sera, attraverso WhatsApp, ci raccogliamo in una preghiera comune proprio per quest’emergenza. Siamo pochi ma preghiamo molto per la Cina». D’altronde, finora, milioni di Maneki Neko, i gatti portafortuna della tradizione cinese, non sono bastati.