Datagate . Zuckerberg ammette: «Sono responsabile di quanto è successo»
«Abbiamo la responsabilità di proteggere i vostri dati, e se non riusciamo a farlo non meritiamo di essere al vostro servizio. Sto lavorando per capire esattamente cos’è successo, e assicurarmi che non accada di nuovo. La buona notizia è che molte misure per prevenire tutto questo sono state già prese anni fa. Abbiamo fatto degli errori, abbiamo fatto dei passi avanti, ma c’è ancora molto da fare». Con un lunghissimo post su Facebook, ieri Mark Zuckerberg, amministratore delegato e fondatore del social-network, ha rotto il silenzio sul “datagate”, la raccolta, senza autorizzazione, dei dati personali di 50 milioni utenti utilizzati poi da Cambridge Analityca a vantaggio della campagna presidenziale di Donald Trump.
In una successiva intervista alla Cnn, Zuckerberg si è detto dispiaciuto per quanto accaduto. Zuckerberg ha sottolineato di aver sbagliato ad essersi fidato di Cambridge Analytica alla quale aveva chiesto di cancellare i primi dati violati nel 2015 ma senza informare gli utenti. È stato un errore non aver allertato sulle app "sospette", ha ammesso Zuckerberg, promettendo che non accadrà più e che la società informerà ogni singolo utente impattato dalla violazione dei profili.
I social media e le regole
"In realtà non vedo perché non dovrebbero essere regolamentati", ha risposto Zuckerberg riferendosi ai social media. "Penso però che la domanda corretta sia più qual è la giusta regolamentazione". Il patron di Facebook ha dunque auspicato maggiore trasparenza per gli spot politici. "Se si pensa a quanta regolamentazione ci sia per le pubblicità in tv e sulla stampa, non si capisce perché non debba esserci per Internet". Eppure Facebook e gli altri social fino ad oggi si sono sempre opposti ad ogni tentativo del Congresso di legiferare in materia.
La nuova filosofia guida
"Prima pensavo che la cosa più importante per me fosse avere il maggior impatto possibile nel mondo. Ora l'unica cosa che mi interessa è costruire qualcosa per cui le mie figlie, crescendo, possano essere orgogliose di me". Così Zuckerberg ha spiegato la sua nuova "filosofia guida". Il 33 enne fondatore del social in blu e la moglie Priscilla Chan hanno due figlie, August, nata lo scorso agosto e Max, nata nel 2015.
Lo scandalo
Ma sarò davvero difficile, per Zuckerbeg, placare la bufera nella quale è finito il suo social. Perché lo scandalo si allarga. Dall’America all’Europa. E mentre l’amministratore delegato di Cambridge Analityca, Alexander Nix, è stato sospeso, si apprende ora che a tirare le fila del programma era Steve Bannon, il controverso direttore dell’ultraconservatore sito Breitbart News, che fece parte del consiglio di amministrazione della Cambridge Analytica quale vice presidente, dal giugno 2014 all’agosto 2016 – quando diventò uno dei responsabili della campagna elettorale di Trump.
Secondo ChrisWyle, l’informatico “talpa” che ha lanciato l’allarme sull’uso non autorizzato delle informazioni di Facebook, fu proprio Bannon – che ricevette compensi pari a 126mila dollari per le sue consulenze – ad autorizzare Nix all’acquisto dei dati personali da Facebook per un milione di dollari, nonché a testare l’efficacia di alcuni slogan utilizzati poi nei comizi di Trump. Il fondatore della società britannica, Robert Mercer, non solo era uno dei finanziatori della rivista di Bannon, ma anche uno dei sostenitori della campagna del candidato repubblicano. Un coinvolgimento che solleva parecchie questioni e che ha già suscitato l’interesse dei legislatori americani, che ora vorrebbero sentire i rappresentanti di Facebook e Cambridge Analytica.
La collaborazione delle due società coinvolte è stata chiesta anche dalla premier britannica Theresa May che, nel definire «molto preoccupanti» i presunti abusi, si è appellata all’authority per la tutela dei dati personali affinché avvii un’indagine. Ulteriori sviluppi si intravedono poi nel Regno Unito: il ministero della Difesa avrebbe collaborato in almeno due progetti con la società di consulenza Scl, da cui è originata CA, garantendole il marchio di garanzia che permette ad “aziende prescelte” di accedere a informazioni riservate. Negli Usa, invece, la Ftc, Commissione federale del Commercio americano che si occupa di proteggere i diritti dei consumatori e della concorrenza, ha già annunciato l’apertura di un’inchiesta su Facebook per determinare la possibile violazione di un decreto sul consenso – la società si era impegnata, nel 2011, a chiedere ai propri utenti l’autorizzazione a condividere i dati personali con altre aziende – che potrebbe costare al social network 40mila dollari per ogni infrazione.
Sempre ieri, sono scattate negli Stati Uniti le prime class action. Gli azionisti di Facebook hanno intentato causa davanti alla Corte federale di San Francisco per «comunicazioni false e ingannevoli» sulla gestione delle informazioni e la perdita di valore del titolo, crollato del 6,8% lunedì e del 2,6 martedì. Alla Corte distrettuale di San José si è invece rivolta Lauren Price del Maryland chiedendo danni – a nome anche di altri utenti – per violazione della privacy.