Ritiro completo o fasce di sicurezza? E, soprattutto, come cambieranno gli equilibri nella Striscia? A Gaza si combatte ancora eppure già si aprono scenari da post-conflitto. Da sabato, Israele è parsa orientata verso un ritiro unilaterale completo dall’enclave. Buona parte dei tank sono tornati verso il confine, in attesa che la distruzione dei tunnel sia portata a termine. Domenica, però, il
Time of Israel ha ventilato l’ipotesi della creazione di cuscinetti militari all’interno della Striscia, nelle aree strategiche. Ieri, invece, il ministro degli Esteri e “falco” Avigdor Lieberman ha parlato di affidare Gaza all’amministrazione dell’Onu, sul modello del mandato britannico sulla Palestina o di Timor Est e del Kosovo. Quali di queste opzioni alla fine prevarrà non è ancora chiaro. È invece chiaro che un sostanziale mutamento di potere all’interno dell’enclave resta un miraggio, come hanno confermato autorevoli fonti ad
Avvenire. Se Israele puntava a far fuori Hamas (oltre a distruggere i tunnel: obiettivo, questo, ufficialmente dichiarato), il traguardo è tutt’altro che raggiunto, hanno spiegato tali fonti. Né poteva essere diversamente: la cacciata del movimento estremista richiederebbe un’occupazione prolungata della Striscia da parte di Tsahal. Con l’alta probabilità – o la quasi certezza – di scatenare una nuova Intifada. È pur vero che Hamas, in 28 giorni di operazione “Confine protettivo”, ha dovuto sacrificare diverse centinaia di razzi e un discreto numero di combattenti. Oltre ai tunnel, distrutti dagli israeliani. Risultati tattici più che buoni per Gerusalemme. Dal punto di vista strategico, però, non molto è stato ottenuto. Hamas, che ha dimostrato un notevole sviluppo militare, ricostruirà le gallerie e comprerà nuovi missili. Le perdite, dunque, non sono così forti da giustificare un cambio al vertice. Almeno a favore di Abu Mazen, sottolineano ancora le fonti. Che precisano: «Il rischio, piuttosto, è che Hamas venga scalzato da componenti più radicali». Ovvero da quei gruppi jihadisti che di fatto sono stati determinanti nel “forzare” la mano al gruppo islamico sul martellamento di razzi, prima dell’operazione. «Proprio la minaccia dei jihadisti ha spinto Israele a non calcare eccessivamente la mano – concludono le fonti –. Gerusalemme ha dovuto intervenire, per ragioni di politica interna. Ma può spingersi fino a un certo punto. Entrambe le parti continuano ad essere prigioniere di una catena infinita di “azionereazione”».