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REPORTAGE. Zimbabwe: uno spiraglio nel buio di un Paese «in fuga»

Emiliano Bos martedì 19 maggio 2009
«Di chi sono le patate?». La domanda riecheggia all’alba sul torpedone stracolmo di mercanzie d’ogni sorta, bloccato per tutta la not­te alla frontiera in uscita dal Sudafrica. Qualcuno cerca di fare il furbo. Cento sacchi da venti chilogrammi non sono stati dichiarati alla doga­na. In realtà, è una forma di contrabbando finaliz­zato alla sopravvivenza. Che però non sfugge ai solerti doganieri dello Zimbabwe. Bisogna pa­gare duecento dollari, a­mericani. Il titolare delle patate si fa avanti e salda il debito. Il caos regna so­vrano sul confine più battuto dell’Africa au­strale, a ridosso del fiu­me Limpopo. Il serpen­tone di autobus incolon­nati per l’ingresso in Zimbabwe attende i con­trolli, lenti e quasi meti­colosi. Il pullman giallo della com­pagnia Pioneer, partito 12 ore pri­ma da Johannesburg, è l’ultimo della colonna. Prima di rimetter­si in moto verso la capitale Hara­re, passano altre interminabili o­re. Vestiti da oltrefrontiera Faye, 23 anni, jeans a vita bassa e sandali infradito, ha sonno. A Johannesburg, racconta, ha com­prato «vestiti e scarpe per me e le mie amiche» . Filbert, un agente fuori servizio di ritorno ad Hara­re, dall’altra parte del confine ha fatto scorta di lampadine e mate­riale elettrico. Di là, in Sudafrica – dove sono fuggiti 3- 4 milioni di zimbabwani –. costa tutto meno. Quando finalmente l’autista in­grana la marcia, una pattuglia del­la polizia interrompe di nuovo il viaggio. Multa per ritardo sulla ta­bella di marcia prevista. Inutile spiegare della lentezza alla fron­tiera. Bisogna pagare venticinque dollari, ancora americani. L’iper- inflazione e il dollaro La moneta locale, che pure si chia­mava dollaro, è carta straccia. Lo e­ra già da anni. Alla fine del 2008 l’iper­inflazione ha rag­giunto una cifra difficile perfino da scrivere: 231 milio­ni per cento. Per tentare di salvare un’economia de­vastata, in febbraio il governo dello Zimbabwe ha mes­so temporaneamente fuori corso la valuta, rendendo obbligatorio l’uso dei biglietti verdi statuni­tensi. Una crisi che, sommata al­le difficoltà politiche, aveva allon­tanato anche gli organismi inter­nazionali. È di ieri la notizia che la Banca mondiale, per la prima vol­ta dal 2001, concederà un presti­to di 22 milioni di dollari, in atte­sa di un’ulteriore schiarita del quadro istituzionale, che potreb­be fare aprire le casse in misura più cospicua. « Noi non avevamo più colori per le nostre banconote » , sorride Jo­nathan Josam. « Quella da 20 mi­liardi di dollari locali era uguale al taglio da dieci milioni» . Josam fa­ceva il taxista, ora è senza lavoro. Suo cugino – che forse non rien­tra nemmeno nel 94 per cento di disoccupati dello Zimbabwe cen­siti dalle Nazioni Unite – è stato per anni uno dei tantissimi cam­biavalute illegali. Adesso, non c’è più nulla da cambiare. Ovunque si usano dollari e rand, la moneta sudafricana. Scaffali un po’ meno vuoti Nel supermercato Spar, all’ango­lo della Quinta strada, nel centro della capitale, si trova ormai di tut­to. Compreso il vino, ovviamente sudafricano. Due chili di riso con­stano 2 dollari e mezzo ( 1,8 euro). «Gli scaffali non sono più vuoti co­me nei mesi scorsi e i prezzi si so­no un po’ abbassati » , ammette Tenny. «Ma come procurarsi i dol­lari? Per chi come me non lavora, è impossibile», riflette questo ex­impiegato di una società statale di pneumatici, seduto dentro lo Sho­niwa shop, bottega di alimentari nel grande quartiere popolare di Mbare. Qui in periferia il mirag­gio della ' dollarizzazione' svani­sce nel più grande mercato all’a­perto della città, dietro la ferrovia. L’economia informale percorre bi­nari paralleli, comprese le vecchie banconote. Fagioli contro medicine Nelle campagne però è impossi­bile procurarsi valuta straniera. The Herald, il giornale- megafono del governo, ha scritto che in al­cune zone si fa ricorso al baratto. Nel distretto di Guruve, un uomo ha pagato con otto barattoli di fa­gioli le cure per la moglie. I servi­zi sanitari sono al collasso, inca­paci di fronteggiare l’epidemia di colera che l’anno scorso ha con­tagiato 65.000 persone provocan­do più di tremila morti. «Tutti i dipendenti pubblici sono retribuiti con 100 dollari al mese indipendentemente dalla loro funzione, compreso il sottoscrit­to», spiega il professor John Makumbe, direttore del diparti­mento di Scienze politiche all’U­niversità di Harare. Il primo mag­gio, il premier Morgan Tsvangirai ha detto chiaramente che le cas­se statali sono vuote e che per o­ra è impossibile aumentare gli sti­pendi. «Quanti studenti ha in­contrato nel campus?» , chiede il docente al cronista. Pochi, una dozzina. «Eppure, gli iscritti erano 12.000. Ma non ci sono fondi, le lezioni sono sospese» , allarga le braccia il professore. Il nuovo go­verno di unità nazionale ha co­munque riacceso qualche spe­ranza. « C’è buona volontà, ma non basta. Sono diminuite le vio­lenze politiche, ma il partito di Mugabe e l’ex- opposizione ora al governo non hanno fiducia reci­proca». «Rimuovere l’ala dura» Secondo Makumbe – già capo del­la sezione locale di Transparency International –, per risolvere i pro­blemi del Paese c’è un’unica solu­zione. « Rimuovere dal potere l’a­la dura del partito di Mugabe, che comprende i vertici delle Forze ar­mate » . Quei generali sono i regi­sti degli attacchi sistematici con­tro gli oppositori politici. E sono loro gli esecutori degli espropri delle fattorie dei bianchi. Le a­ziende agricole sono state affida­te agli ' amici' del presidente, in­capaci di gestirle dopo averle se­questrate agli eredi dei colonizza­tori. « Per noi c’è sempre una ghigliot­tina sulla testa » , si sfoga Bruce ( « Non scriva il cognome per favo­re » ), un bianco ancora titolare di una fattoria di 170 ettari con 350 dipendenti nella provincia del Mashonaland. In pochi anni la ge­stione dissennata del regime di Mugabe ha portato alla fame l’ex­granaio dell’Africa meridionale. «Ci intimidiscono continuamen­te. Dalle mie parti siamo rimasti in 6, eravamo in 35 » , aggiunge. Gli white farmers, i proprietari terrie­ri bianchi, per decenni hanno co­munque sfruttato la manovalan­za locale... «Di certo non erano ' buonisti' ma capitalisti in cerca di profitto – ammette Bruce –. O­ra però dobbiamo dimenticare l’i­deologia per rimettere in moto l’e­conomia. Manca denaro contan­te. Io non sono autorizzato a rice­vere valuta straniera dai clienti. Perciò dallo scorso dicembre non pago lo stipendio ai miei dipen­denti » . Solo cibo in cambio di la­voro. « E chi non lavora è costret­to a mangiare i frutti degli alberi selvatici». I  gesuiti in campo Mangiano soprattutto pannoc­chie invece Noleen e Jimu, due fratelli che vivono in una baracca di paglia e legno nelle campagne di Chishewasha, una ventina di chilometri da Harare. Orfani di madre, cacciati dalla fattoria e­spropriata dove lavorava il padre. Ora il Jesuit Refugee Service, or­ganizzazione di assistenza dei ge­suiti, paga loro la retta scolastica. « Il costo della scuola – spiega la responsabile Joan Mtukwa – è in­sostenibile per troppe famiglie. Così questo Paese si gioca il futu­ro ». Il presente si gioca invece con le vecchie banconote ammontic­chiate sul cruscotto di un mini­bus- taxi diretto in centro. Si paga con un dollaro americano, il mez­zo dollaro di resto può essere chie­sto ancora in valuta locale: 3 mi­lioni di miliardi.