Come una tempesta di maledizioni, la disgrazia non smette di abbattersi sullo Zimbabwe. Schiacciato da un regime cieco e sordo, sfiancato da una lunga catena di miseria economica e sociale, adesso subisce anche il colera. Guai che hanno inaridito quello che era considerato il quarto granaio d'Africa, portando il Paese sull'orlo della rovina materiale e del disastro totale. Ma c'è di più. Le Nazioni Unite lanciano un altro grido d'allarme per il gennaio 2009: una grave emergenza alimentare colpirà 5 milioni di affamati. A incombere attualmente è la grave emergenza provocata da quello che viene definito un «pesante fardello», un'epidemia di colera che ha già fatto 400 morti accertati e infettato 10mila persone: conseguenza crudele delle precarie condizioni di vita e di igiene cui la popolazione da lungo tempo si trova sottoposta. La paura è che si tratti solo della punta dell'iceberg. La parte conosciuta di un fenomeno che si teme di maggiore portata. Ieri, nella capitale è stato deciso di rendere gratuiti i funerali e le sepolture per le vittime dell'epidemia, cui varie Ong stanno cercando di dare risposta con interventi d'urgenza per sopperire alla mancanza di acqua potabile, latrine e fognature. La vita in Zimbabwe è afflitta pure dalla mancanza di speranza che qualcosa un giorno possa cambiare, in particolare dopo otto duri anni trascorsi nella parabola discendente della politica folle e suicida e della devastazione economica innescata da un presidente che è padrone assoluto della nazione: l'ottantaquattrenne Robert Mugabe, al potere dal 1980. Senza alcuna esitazione, ha bruciato la ricchezza della sua gente come in un rogo di paglia. A cominciare dal fallimentare tentativo, ad uso politico, di redistribuzione delle terre e delle aziende agricole di proprietà dei coltivatori bianchi. Un disastro che ha portato la disoccupazione al 90 per cento e innescato un effetto domino di iperinflazione che ha superato i 230 milioni per cento. Cifra che non si ferma e che cambia di minuto in minuto, con i prezzi dei generi di consumo che raddoppiano ogni 24 ore, mentre la Banca centrale non fa che stampare valuta, cui viene tolti solo la lunga sfilza di zeri. Sul mercato, per l'acquisto di pane e verdure, si usa il "dollaro zim". Anche il sistema scolastico non esiste più. Si è registrata una caduta vertiginosa dal 90 al 20 per cento della frequenza. Gli insegnanti, come tante altre categorie di lavoratori, non possono permettersi di affrontare le spese di trasporto per raggiungere il luogo di lavoro. È un urlo silenzioso quello che sale dal profondo di un Paese in ginocchio, da quegli stessi corpi annientati dalla paura e dall'oppressione, che adesso devono affrontare l'incubo di morire di una malattia infettiva, relativamente semplice da debellare seguendo un'adeguata terapia antibiotica. Un'infezione che però grava su un Paese in cui gli ospedali hanno dovuto chiudere non solo perché ormai privi di medicinali, ma perché gli stipendi del personale si sono ridotti al valore d'un pezzo di pane. Tanto che il 70 per cento di medici e infermieri specializzati " dotati in media di un'alta professionalità, considerata al primo posto nel Continente " è stato obbligato a emigrare all'estero già da tempo. E molte strutture hanno chiuso perché quasi più nessuno può permettersi cure adeguate, dovendo pagare visite e degenze in valuta forte: il dollaro americano, da conquistare al mercato nero, nascosti agli occhi della polizia. Più facile per chi vive nelle grandi città, ma impresa impossibile per contadini e pastori delle campagne e dei villaggi, dove la povertà spinge la gente a mangiare l'erba. Si muore di diabete, perché manca la dialisi, oppure per una banale appendicite o per il parto se ha complicazioni impreviste. I malati perdono ogni residua speranza, se ce l'hanno, non appena varcano la soglia di un dispensario o di un ospedale che ancora riesce a offrire una branda. Quando la situazione si aggrava, i pochi medici rimasti non possono fare altro che invitare i parenti a riportarsi a casa il malato morente. Senza farmaci salvavita, sprovvisti di scorte di siringhe sterili usa e getta o semplici contenitori di plastica per gli esami del sangue, senza neppure la garanzia di poter provvedere ai pasti dei degenti, con la sola possibilità di praticare " non sempre " gli interventi d'emergenza. E su tutto ciò ora è piombato il colera. Nonostante la richiesta avanzata dalle Nazioni Unite di dichiarare ufficialmente l'"emergenza nazionale", perché «la malattia si sta propagando a una velocità allarmante», Harare rifiuta e punta il dito accusatore. «La situazione è sotto controllo " replica il viceministro della Sanità Edwin Muguti " , la crisi è il risultato delle sanzioni imposte dall'Occidente contro di noi e contro il presidente Mugabe». Intanto, si muore nel silenzio delle campagne rinsecchite, nelle case povere in cui si cerca di alleviare la fame nutrendosi di polenta bianca e radici. E si piange un rapido funerale, senza cerimonie per paura del contagio, perché un solo malato può infettare tutto il villaggio. Per questo, sottolineano le organizzazioni internazionali, «è difficile avere un sguardo d'insieme della reale entità di questa epidemia di colera». Per il vicino Sudafrica la situazione è da considerarsi «atroce» e le frontiere che già hanno visto negli anni il passaggio di oltre quattro milioni di zimbabwani in cerca di lavoro " un terzo della popolazione ", «resteranno aperte ai malati, ai quali sarà garantita l'assistenza medica». Ma si registrano già casi mortali nella città frontaliera sudafricana di Musina. Oltre al colera, si riaffaccia la paura per il carbonchio: nella regione sud-occidentale, sono stati segnalati episodi mortali, due pastori, e la strage del loro bestiame, centinaia di capi. Robert Mugabe, malgrado le promesse, non ha mai voluto concedere spiraglio alle numerose iniziative internazionali per avviare un dialogo serio con l'opposizione, da lui accusata di essere «agente dell'imperialismo». La strada per giungere a un cambiamento politico indolore, e così ridare speranza di ripresa, si arena ogni qual volta c'è una parvenza di intesa, come quella di metà settembre, dopo le contestate elezioni presidenziali di giugno. Mugabe e il suo rivale Morgan Tsvangirai hanno firmato un accordo di condivisione del potere, rimasto però sulla carta. In questi giorni, c'è stato l'ennesimo tentativo di accendere una luce sulla crisi umanitaria, ma è stato bloccato con il rifiuto di Harare di concedere il visto d'ingresso all'ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan e all'ex presidente americano Jimmy Carter. Gli osservatori internazionali danno ancora uno o due mesi prima del totale tracollo, «una vera implosione del Paese». C'è chi chiede interventi più decisi e forti per spezzare subito il potere di Mugabe. Lo fa il ministro degli Esteri del Botswana, Skelemani, il quale si auspica che si arrivi a sigillare le frontiere dei Paesi confinanti: «Abbiamo fallito con le mediazioni, non falliremo nell'isolare Harare. Vedremo se il potere di quell'uomo è in grado di sopravvivere sette giorni senza una goccia di carburante».