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Pechino. Xi, altri 5 anni da «imperatore». 
Ma i mercati non si inchinano 


Stefano Vecchia martedì 25 ottobre 2022

Xi Jingping

Il terzo mandato del segretario del Partito comunista cinese Xi Jinping, 69 anni, è iniziato domenica con l’elezione del XX Comitato centrale da parte dei 2.338 delegati presenti al Congresso nazionale del partito nella Grande sala del Popolo che si affaccia su Piazza Tienanmen a Pechino, nel segno dell’eccezionalità, per ampiezza e durata.

Le Borse, però, lo hanno già bocciato: oltre il 2 per cento le perdite di Shanghai e Shenzhen, mentre a Hong Kong l’indice Hang Seng ha ceduto il 6,36 per cento e quello delle imprese cinesi qui quotate, l’Hang Seng China Enterprises Index, il 7,3 per cento. Risultati che hanno notevolmente limitato il sollievo per i nuovi dati sulla produzione e sull’export dai quali emerge un accenno di ripresa, al momento tutta da confermare.

D’altra parte, questo sembra essere per ora il compito principale del nuovo segretario generale e della leadership del Pcc, a partire dai sette membri designati al Comitato permanente del Politburo, in parte rinnovato, ringiovanito e soprattutto di provata fedeltà a Xi. A partire da Li Qiang, segretario del partito a Shanghai di cui è prevedibile la nomina a vice-presidente quando a marzo il Congresso nazionale del Popolo riconfermerà Xi alla presidenza del Paese. Quest’ultimo ha accentrato su di sé tutti i principali poteri dello Stato e il controllo dell’apparato militare con un ruolo “imperiale” mai visto dai tempi di Mao Zedong.

Il suo mandato, di altri cinque anni nonostante la regola non scritta del limite di età a 67, riflette questo potere, indicato come necessario a far progredire la nazione e per consolidare il cammino del gigante cinese verso la supremazia mondiale. Con quali limiti e resistenze non è chiaro, ma molto dipenderà dalla stabilità che il partito egemone saprà garantire sul piano economico e sociale.

Per questo la maggior parte delle epurazioni e dei cambi di leadership interni al Pcc che conta 96 milioni di iscritti, del governo e della pubblica amministrazione hanno fatto leva negli ultimi anni sulla moralizzazione. Un tema fortemente sentito e in grado di suscitare un ampio consenso popolare dopo la spregiudicatezza, l’ostentazione delle ricchezza e la corruzione che hanno accompagnato il “miracolo” economico cinese alla confluenza tra potere politico, profitto e bene comune.

Coinvolta nelle varie crisi globali, alle prese con una non facile ristrutturazione interna e una popolazione che si avvia a un declino e invecchiamento altrettanto rapidi, la Repubblica popolare cinese è ora è più incerta di quanto fosse nel 2012 quando Xi Jinping, salì per la prima volta al ruolo di “timoniere” del grande Paese asiatico, ma anche più forte economicamente e militarmente. Una vera superpotenza capace di giocare un ruolo su più tavoli istituzionali o informali per garantirsi risorse e alleanze. Pronta a mediare nelle tensioni altrui (come ora nel conflitto ucraino) ma intransigente sui propri “fronti” interni, da Taiwan allo Xinjiang, dall’eliminazione dell’opposizione democratica al contrasto alla pandemia che ha messo a dura prova la nazione.

In questo contesto di strategie da consolidare e di certezze da mettere ancora alla prova, si colloca anche il secondo rinnovo biennale dell’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi del 22 settembre 2018 tra Santa Sede e Pechino. Dopo la comunicazione di parte vaticana sabato scorso che ha manifestato l’intenzione di «proseguire il dialogo rispettoso e costruttivo con la Parte Cinese, per una proficua attuazione del suddetto Accordo e per un ulteriore sviluppo delle relazioni bilaterali, in vista di favorire la missione della Chiesa cattolica e il bene del Popolo cinese», ieri è arrivata la conferma del portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin. «Cina e Vaticano hanno deciso di prorogare di due anni l’accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi dopo una consultazione amichevole», ha affermato.