«La Nigeria è diversa. Il piano di Boko Haram per imporre la sharia al Paese massacrando i cristiani non funzionerà. Ma questo non è solo un problema nigeriano e la comunità internazionale deve darsi da fare sul serio per fermare il tentativo di “somalizzare” buona parte del Continente». Olusegun Obasanjo è il padre della Nigeria moderna. Quella che lui, da cristiano che dialogava con i capi islamici, condusse ad una Costituzione democratica. Presidente dal 1999 al 2007, il generale a riposo è ancora la personalità più influente dell’ex colonia britannica, una delle voci più rispettate di tutta l’Africa.Pochi giorni fa Obasanjo ha messo in campo tutto il suo prestigio volando in Senegal per incontrare Cheikh Ahmet Tidiane Ibrahima Niasse, capo della potente confraternita musulmana dei Niassenes, che in Nigeria conta più di 70 milioni di fedeli, quasi la totalità degli islamici. «Lui può aiutare a far cessare le ostilità», ha spiegato Obansanjo rientrando in patria.
Presidente, a cosa si deve l’intensificarsi delle violenze?C’è un elemento interno, originato dalle condizioni socioeconomiche del Nord Nigeria. E ci sono elementi esterni, scaturiti dalla situazione libica. Parlo di uomini, non solo libici, addestrati al tempo di Gheddafi e che sono dovuti fuggire, spostando le loro formazioni e le armi altrove, devastando altre comunità. Si muovono su larga scala. Mentre tentano di destabilizzare il Mali hanno contribuito a rianimare gruppi come Boko Haram, responsabile delle stragi in Nigeria.
È in grado di fare previsioni per i prossimi mesi?Le violenze non cesseranno a breve. In qualche misura è questo l’effetto indiretto delle “primavere arabe”, celebrate così in fretta da non mettere nel conto ricadute inevitabili. C’è un prezzo da pagare, ma Boko Haram non può vincere questa guerra. La Nigeria è diversa, stabilire la “legge islamica” qui è impossibile. Chi conosce la nostra storia dovrebbe sapere che è da ingenui immaginare di imporre una religione, e di questa solo una visione settaria, a tutto un popolo. Ma, ripeto, per salvare la Nigeria e con essa buona parte della regione, occorre fare di più in Mali.
Cosa chiede all’Unione Africana e alle Nazioni Unite?Di intervenire militarmente senza tralasciare il ruolo della politica e del sostegno allo sviluppo, che è la vera chiave per disinnescare i fondamentalismi. Il contagio arriva dal quel Paese, a sua volta precipitato nell’instabilità a causa della situazione libica. È quella la “nuova Somalia”. Ed è lì che occorre agire a largo spettro con la forza, la politica e gli interventi socioeconomici.
In caso negativo, quali ripercussioni vi potrebbero essere?Il contagio si estenderebbe e rendere instabile la Nigeria non vuol dire solo rendere insicura la più popolosa nazione africana, oltre che uno dei Paesi più ricchi di risorse minerarie ed energetiche, ma propagare gli scontri in tutto il Sahel, con ricadute sul Corno d’Africa e nell’intera area subsahariana.
Dodici anni fa lei, pur promulgando una Costituzione laica, concesse la sharia agli Stati del Nord Nigeria. Non fu un errore?È troppo facile per voi stranieri semplificare il contesto di violenze, definendolo come un conflitto di estremisti islamici contro i cristiani. Lo vado spiegando da tempo: la religione è un pretesto, si tratta di uno scontro generato da interessi che fanno leva sul disagio sociale.
In che modo?Nel Nord la disoccupazione giovanile supera il 60%. Quando dei ragazzi non hanno un’occupazione, non possono frequentare l’università, insomma quando la disperazione ha il sopravvento sul sogno di un futuro migliore, questi giovani diventano facile preda del radicalismo politico, del tribalismo, di quel fondamentalismo religioso che, a differenza di tutti gli altri estremismi, è insufflato da stranieri.
Eppure si tratta di aree che da anni beneficiano di ingenti supporti finanziari internazionali. Nonostante questo pare non ci sia modo di fermare la povertà e incentivare le economie locali.Il problema è che si è messo l’accento sugli aiuti a scapito degli altri ingredienti necessari allo sviluppo. Soprattutto uno: la risoluzione dei conflitti per garantire una pace durevole su cui costruire un “modello di sviluppo africano”.