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PESCA. Vichinghi e anglosassoni alla guerra dello sgombro

Andrea Varacalli sabato 11 settembre 2010
«Hey, hey/ Vicky hey/ temerario / non incontrerai mai chi ti potrà fermare!». Era il 1977 e così recitava la canzone dell’indimenticabile cartone animato «Vicky il vichingo». Ma cosa mangiava l’inarrestabile Vicky? Merluzzo, dicono in Scozia, non lo sgombro. E già, perché trentatré anni dopo la serie televisiva di Vicky e la "guerra del merluzzo" vinta sugli inglesi, si è riaccesa la battaglia con i "vichinghi" islandesi sulla pesca di un altro pesce: lo sgombro. O più precisamente sul «maccarello». Lucente e affusolato, dalla livrea blu e argento, ricco di omega 3, un pesce virtuoso per combattere l’ipercolesterolemia, lo sgombro è oggi l’assoluta rivelazione sui mercati nordatlantici. Esattamente tra le isole Fær Øer e la terra dei geyser. Da qualche anno l’"ospite" dei barbecue, infatti, preferisce le acque più fresche del Nord a causa del riscaldamento del Pianeta; ha abbandonato la Cornovaglia e ora nuota entro le «200 miglia marine da Reykjavik» dicono. Ma non tutti sono d’accordo: Gran Bretagna, Norvegia e Unione europea hanno abbandonato le carote diplomatiche per impugnare il bastone dei blocchi navali. L’Islanda infatti se ne infischia delle quote-pesca imposte da Bruxelles – non ne vogliono sapere di essere ammessi nel circolo europeo – e sullo sgombro, come prima sul merluzzo, non c’è stato nulla da fare: nessuna limitazione alle acque territoriali. E così da 27mila tonnellate di sgombro – tetto massimo determinato da Bruxelles – l’Islanda è passata in soli due anni a pescarne 215mila tonnellate, alla faccia degli anglosassoni e di mezza Scandinavia. Mettendo anche in pericolo – dicono i ricercatori biomarini – l’esistenza stessa della specie. La settimana scorsa 55 pescatori scozzesi hanno inchiodato fisicamente i pescherecci delle Fær Øer – provincia autonoma dal 1948, ma protetta dal ministero della Difesa danese – che al largo della costa dell’Aberdeenshire stavano preparando la vendita del proprio carico sulla nave Jupiter, equivalente a 1.100 tonnellate, quasi un milione di euro, destinato a un impianto di trasformazione scozzese dello sgombro. Solo l’intervento dei reparti antisommossa della polizia ha evitato il peggio. Questo è uno degli aspetti più interessanti di tutta la vicenda: a Reykjavik, infatti, è praticamente impossibile trovare il maccarello, «nemmeno in scatola nei supermercati». La pesca, insomma, avviene non per l’autoconsumo ma per la vendita e l’esportazione. L’industria ittica britannica e quella norvegese sono «sotto l’attacco dei moderni pirati vichinghi», dice lo scozzese dei tories, Struan Stevenson, vice presidente del comitato per la Pesca al Parlamento europeo di Strasburgo, mentre brandisce una scatoletta di sgombro sigillata nel Regno Unito, ma pescato dagli islandesi. «Dovremmo riminacciarli di guerra mentre vanno avanti le diplomazie. Ecco cosa dovremmo fare – spiega, mentre gli ammiragli delle due marine militari giocano al cane e gatto ai limiti delle proprie acque territoriali –. Soprattutto bisognerà chiudere tutti i porti dei Paesi dell’Unione alle navi mercantili islandesi e delle Fær Øer». Anche i norvegesi non hanno perso tempo e durante l’incontro due settimane fa tra il ministro degli Esteri di Oslo, Jonas Gahr Støre, e il primo ministro scozzese, Alex Salmond, si è chiarito che «mentre la Ue resta impegnata nelle negoziazioni, noi respingeremo dalle nostre coste le imbarcazioni islandesi e delle Fær Øer. Non tollereremo altre azioni "anarchiche" dal governo di Reykjavik». Ma anche Oslo minaccia di andare arbitrariamente ben oltre le quote Ue in caso di fallimento. Da una sponda all’altra, riaffiorano vecchie ferite. «Nel porto di Reykjavik, una delle navi da guerra che aprì il fuoco sulle 53 imbarcazioni della marina militare di Sua Maestà impegnate oltre le Shetland – durante la Landhelgisstríðin Þorskastríðin, la guerra del merluzzo ’75-’76 – è oggi il più celebrato dei ristoranti nel porto della capitale», raccontano con stizza i pescatori britannici. Se da un lato il modello di sviluppo islandese capace di trarre vantaggio dal potenziale marino è uno degli elementi nel secolare confronto con gli inglesi, ci sono da registrare due fatti determinanti all’innalzamento della tensione tra le isole. Il primo è la «tavolata di cenere vulcanica con cui hanno riempito le nostre produzioni agricole e compromesso il trasporto delle merci», accusano gli inglesi. L’eruzione del Eyjafjallajokull, che nello scorso aprile ha paralizzato l’Europa, infatti, alimenta le voci dell’ultranazionalismo negli ambienti della destra britannica – British National Party – in cui retorica e denuncia si saldano in momenti di forte disoccupazione nel Regno Unito. Sarebbero migliaia infatti i posti di lavoro a rischio se «la guerra dello sgombro» non trovasse una rapida soluzione politica e commerciale. Il secondo fatto è rappresentato dalla decisione degli islandesi che, con un referendum, hanno stabilito di non restituire quasi 4 miliardi di euro agli investitori del Regno Unito dopo la crisi finanziaria mondiale del 2008. Buona parte di questi soldi appartengono a municipi e istituzioni pubbliche inglesi. Insomma, è molto più di una semplice rivalità quella che scorre tra le acque al nord delle Shetland. «La Royal Navy è pronta», minaccia Stevenson. Il piccolo governo delle Fær Øer glissa e chiede un incontro straordinario con Londra. Quest’ultima ricorda che l’industria ittica scozzese fonda sul maccarello un giro d’affari di 300 milioni di euro l’anno. Ma Vicky il temerario «nessuno lo potrà fermare».