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Siria. I ribelli e la lista di 40mila torturatori da uccidere: «Non lo facciano»

Lucia Capuzzi, inviata a Homs martedì 17 dicembre 2024

Le fotografie degli “scomparsi di regime” degli Assad sono appese da giorni sul basamento di una colonna in piazza al-Marjeh a Damasco: per le Ong sono quasi 150mila

La chiesa dello Spirito Santo, dove si trova il vescovado, dista qualche centinaio di metri dalla piazza dell’Orologio nuovo. Il centro nevralgico di Homs e, dal 19 aprile 2011, della Siria. Quel giorno di quasi quattordici anni fa, l’esercito, inviato in forze dalla dittatura di Bashar el-Assad, aprì il fuoco contro una folla di 5mila manifestanti pacifici, riunita nella rotonda. Ne uccise – sostengono fonti indipendenti – almeno duecento, trasformando la terza città del Paese nella “capitale della rivoluzione”. Fama che le è costata un prezzo altissimo come raccontano le file interminabili di edifici in macerie. «Da quel primo massacro, tutto è precipitato. E la protesta disarmata della Primavera si è trasformata nel bagno di sangue della guerra civile. Padre Paolo Dall’Oglio aveva capito che sarebbe potuto accadere. E si è speso con tutte le proprie forze per aprire un canale di dialogo tra le due parti. Purtroppo non è stato ascoltato». Padre Jacques Murad guida, da un anno e mezzo, la diocesi di Homs. All’epoca dell’inizio delle dimostrazioni contro Bashar al-Assad, però, dopo aver costruito la comunità di Mar Musa al fianco del gesuita italiano, era impegnato a edificare quella intorno al monastero di Mar Elian, nel villaggio di al-Qariatin.

Là, nel 2013, condusse una delicata mediazione tra i militari e i ribelli, prima di essere catturato dalle truppe del Daesh il 21 maggio di due anni dopo. Dalla prigionia, trascorsa nel bagno di un mulino a una trentina di chilometri da Raqqa, sarebbe fuggito cinque mesi dopo. «Quell’esperienza mi ha insegnato a non giudicare nessuno. Dietro le scelte di ogni persona c’è una storia complessa – afferma l’arcivescovo della Chiesa di Antiochia dei siri, la cui residenza è perennemente aperta a tutti –. Per questo è fondamentale ascoltare, senza pregiudizi». Una consapevolezza che lo accompagna in questo momento cruciale della storia nazionale. Padre Jacques è pronto a dare fiducia al nuovo corso. «Hayat Tahrir al-Sham (Hts), non è il Daesh, so di cosa parlo. Non dimentichiamo che i due gruppi si sono combattuti ferocemente. Non sono, dunque, preoccupato. I siriani meritano di vivere in uno Stato che rispetti la loro dignità. Affinché, però, non si passi da una dittatura ad un’altra, tutti abbiamo il compito di vigilare e di denunciare quello che non va, fin dal principio». Il pastore di Homs dà l’esempio. Dall’8 dicembre ha avuto due incontri con rappresentanti dell’esecutivo entrante. L’ultimo, sabato, in una sala della chiesa greco-ortodossa. «Avevo saputo da fonti attendibili di una serie di vendette perpetrate nella zona di al-Qusair, a una trentina di chilometri da Homs. I ribelli hanno ucciso 160 miliziani di Hezbollah. E vogliono fare lo stesso con 23 cristiani, ricercati con l’accusa di avere collaborato con il regime. Ho, così, detto loro che azioni simili tradivano la rivoluzione, il cui sogno era un Paese libero e giusto. Uno dei presenti, un esponente di alto livello di Hts, mi ha risposto che le nuove autorità avevano stilato una lista con 40mila nomi di torturatori, vertici dei servizi segreti, criminali di guerra, da eliminare. Sono sbiancato. Per un attimo ho pensato: sono cambiate le persone non il sistema. Ho, però, scelto di dialogare, parlando senza reticenze. Gli ho detto che comprendevo la necessità di punire i responsabili di violazioni dei diritti umani. Ma se, come Abu Mohammed al-Jolani ha promesso, vogliamo promuovere la riconciliazione e costruire una Siria finalmente per tutti e di tutti, i colpevoli devono essere giudicati da tribunali indipendenti. E la pena deve rispettare la dignità e la vita del condannato. Proprio l’assenza di una giustizia che fosse tale è stata l’origine delle aberrazioni dell’ultimo mezzo secolo. L’ho, dunque, esortato a non ripetere gli stessi errori. Da questo, ho aggiunto, dipenderà la credibilità del governo agli occhi dei siriani. Mi ha ascoltato in silenzio e ha taciuto. Da parte mia, continuerò a fare la mia parte perché il Paese proceda sulla strada della convivenza». Un cammino ancora lungo e complesso.

La fine di un regime di terrore è stata, comunque, un passo, fondamentale. «Le faccio un esempio. Nel 2010, sono stato arrestato per un loro errore: un funzionario aveva dimenticato di rinnovarmi l’esenzione dalla leva in quanto sacerdote. Da ostaggio del Califfato non ho mai provato una paura simile a quella sperimentata nelle 24 ore trascorse nella cella del carcere militare di Aleppo in cui mi avevao rinchiuso – sottolinea padre Jacques –. E a me è andata bene. Nel 2012, mi sono occupato della vicenda di un parrocchiano, rapito dai servizi della dittatura e scomparso per giorni fin quando non sono riuscito a ritrovarlo. Ci è voluta un’altra settimana affinché fosse rilasciato. Quando l’ho visto, sono rimasto sgomento. Il suo corpo era tutto una ferita. La sofferenza era visibile eppure non poteva raccontare nulla di quanto gli era accaduto. Il silenzio a cui eravamo costretti era la cosa più terribile. Un carcere interiore da cui non era possibile uscire. Solo ora che conosciamo i dettagli delle sevizie, stiamo scoprendo la tragica verità. La immaginavamo ma non pensavamo si potesse arrivare a tali crudeltà. Per i siriani è uno choc. Orrori simili non devono più ripetersi. Non possiamo permetterlo. Sono convinto che i siriani non lo consentiranno».