Un mare d’inchiostro rosso – il colore del partito repubblicano – si allarga sulla cartina degli Stati Uniti man mano che i risultati vengono annunciati. Le grandi macchie di blu dei democratici che due anni fa ricoprivano le due coste, tappezzavano buona parte del Sud e del Nord e si infiltravano nel centro sono sparite. Perse. Per quanto tempo? Basteranno due anni al partito di Barack Obama per riprendersi dalla sconfitta di ieri, come sono bastati ai conservatori non solo per risollevarsi dalla batosta del 2008, ma anche per portare l’orologio indietro a prima del movimento anti-Iraq del 2006, alla “rivoluzione repubblicana” del 1994 e, stando al numero di seggi vinti alla Camera, ancora prima, al 1948? È questa la questione aperta che resta quando tutte le domande preelettorali hanno ricevuto risposta, confermando la nuova tendenza a destra dell’elettorato americano. Sono allora i cortissimi cicli elettorali la nuova realtà politica americana? Rapide alternanze che non lasciano al Congresso tempo per lavorare, o lo costringono a maratone contro il tempo come quelle che hanno portato in 18 mesi al pacchetto di stimolo per l’economia, alla riforma della sanità e a quella della finanza? Di certo quello che esce dal voto di martedì – un voto che ha visto un’affluenza superiore alla media dei midterm, ma non eccezionale – non è solo un Congresso diviso, con la Camera ai repubblicani e il Senato per un pelo ai demo-cratici, ma anche un Congresso più spinto verso gli estremi, dopo che i centristi del partito democratico sono stati purgati dagli elettori liberal in risposta all’ondata conservatrice, e dopo che il Tea party ha spinto a destra, o sostituito con propri rappresentanti, i candidati più moderati del Grand Old Party (Gop). La nuova cartina americana ha anche visto tornare “rossi” Stati che nel 2008 Obama aveva faticosamente vinto e che sono decisivi per arrivare alla presidenza, come l’Ohio, la Florida, la Pennsylvania. La rimonta alla Camera – dove tutte le poltrone erano aperte e dove il Gop ha strappato alla maggioranza 60 seggi – sospinta dalle preoccupazioni per la precaria situazione economica del Paese e per l’alta disoccupazione, è stata più cospicua nel Sud e nel Midwest, vale a dire in Stati di centro-Ovest come Colorado, Wyoming, Idaho, Nevada. Al Senato l’avanzata è stata più contenuta, ma forse perché c’erano in gioco solo 37 seggi su 100. I repubblicani hanno accaparrato almeno sei seggi senatoriali, arrivando a quota 46 con tre duelli ancora da decidere. I democratici sono però riusciti a rimanere attaccati, con le unghie e con i denti, ad alcuni Stati determinanti, anche questi in vista delle presidenziali del 2012, come la California, che ha ora un governatore democratico dopo sette anni di Schwarzenegger, il Connecticut e il Delaware. Il capogruppo dei democratici al Senato, Harry Raid, è riuscito a mantenere per un pelo la sua poltrona, risparmiando a se stesso e al suo partito una sconfitta simbolicamente scottante. Ma il dolore per l’asinello è arrivato sotto forma della perdita del seggio dell’Illinois al Senato che fu di Obama e che è passato al repubblicano Mark Kirk, che si è presentato con una piattaforma di tagli alla spesa pubblica.«Quando lo Stato del presidente respinge le sue scelte di politica fiscale, questo fa tremare violentemente la Casa Bianca», sottolineava ieri il presidente del Gop Michael Steele, rigirando il coltello nella piaga. Ma al di là delle scontate manifestazioni di rivincita sui rivali democratici (e il peggio deve ancora venire: i repubblicani hanno già annunciato una serie di indagini sull’operato dei primi due anni dell’Amministrazione Obama) i conservatori ieri mantenevano un tono sorprendentemente cauto. «Dobbiamo stare attenti a non farci trasportare», diceva Lamar Alexandre, il repubblicano numero tre al Senato. «Molti americani sono scettici nei nostri confronti, non possiamo fare niente che li disturbi troppo», ammoniva il numero due del Gop alla Camera, Eric Cantor, invitando i colleghi a fare passi piccoli per rosicchiare via le misure più odiose, ad esempio, della riforma sanitaria, piuttosto che tentare di farla abrogare. I repubblicani saranno anche presi in una scomoda morsa. Da una parte ci saranno i gruppi industriali che li spingeranno verso compromessi con i democratici per fare passi avanti per una solida ripresa (continuando a spendere in infrastrutture, agevolazioni fiscali per l’innovazione e la ricerca). Dall’altra i nuovi eletti del Tea party e i loro sostenitori che rifiuteranno ogni collaborazione con i democratici e metteranno al primo posti i tagli alla spesa pubblica, costi quel che costi. Abbastanza incertezza per dare ai democratici, mentre si leccavano le ferite, il coraggio di difendere le conquiste legislative degli ultimi due anni – anche se sono costate loro la maggioranza al Congresso. «Il risultato delle elezioni non sminuisce il lavoro che abbiamo fatto per gli americani», diceva ieri infatti Nancy Pelosi, mentre si preparava a cedere lo scranno di speaker a John A. Boehner. Una seduta del Congresso.