Elezioni Usa. Il politologo: Trump o Biden, in ogni caso l'Europa dovrà andare da sola
Elettori statunitensi al seggio sotto la neve per l'"Early in-person voting"
Gli Stati Uniti d’America e la politica estera: un secondo mandato Trump seguirebbe gli stessi binari del primo? E che cosa cambierebbe con Biden presidente? A rispondere è Gianluca Pastori, professore di Storia delle relazioni politiche tra il Nord America e l’Europa all’Università Cattolica di Milano.
Professore, che cosa si aspetta per il futuro geopolitico americano?
Io credo che, con un Trump bis, dobbiamo aspettarci altri 4 anni “in altalena”. È probabile che il presidente rafforzerà la critica al multilateralismo, alle Nazioni Unite, alle organizzazioni internazionali e che i rapporti con l’Unione Europea saranno ancora tesi. Quelli con la Cina, nel frattempo, già adesso stanno andando deteriorandosi: ricordo le pressioni esercitate da Washington sui governi europei affinché varino legislazioni che ostacolino l’espansione cinese sul mercato delle telecomunicazioni. Londra si è mossa in tal senso, i francesi pure, la Germania ci sta pensando.
Come mai Pechino non ha ancora risposto?
È in attesa dei risultati delle elezioni, ma qualche risposta arriverà di certo. Anche la tensione fra Mosca e Washington è in aumento. Senza dimenticare il fronte iraniano.
Quale direzione potrebbe prendere la relazione con Teheran?
Nel 2021 ci saranno anche le presidenziali iraniane. Il pragmatico Hassan Rohani non potrà ricandidarsi poiché ha esaurito i due mandati. Un’amministrazione Trump bis potrebbe augurarsi, per legittimare la propria strategia di attacco, un falco come fu Ahmadinejad. Questo nell’ottica della cosiddetta “instabilità controllata”. Biden, invece, auspicherebbe qualcuno con cui dialogare: non dimentichiamo che il candidato democratico, da vice di Barack Obama, ha sostenuto e promosso l’Accordo sul nucleare con l’Iran.
E con l’arco sunnita dei Paesi a maggioranza islamica?
Non prevedo un ritorno alle “cattive amicizie” obamiane, ma credo che con Biden la vicinanza a Riad sarebbe inferiore rispetto a quella attuata da Trump: il caso Khashoggi è stato fatto “scivolare via”. Se dovesse vincere Biden, il cui stile è quello, diciamo così, della voce felpata, io penso che anche certe acquisizioni israeliane sarebbero messe in discussione.
E con la Turchia di Erdogan?
Il deterioramento delle relazioni è in corso da lungo periodo. Nel 2003, il Parlamento turco ha negato l’uso delle basi turche agli aerei americani, impegnati in Iraq. Recentemente l’amministrazione Trump ha diffuso un comunicato in cui si ventilano conseguenze non specificate nei confronti di Ankara se la sua aggressività in politica estera dovesse protrarsi. Ma Erdogan è ormai un battitore libero, una variabile impazzita. Questo per qualsiasi presidente americano.
Per venire agli interessi europei e pure italiani, non sempre allineati, quale inquilino auspicare alla Casa Bianca?
Come Unione Europea, è stata sposata la linea Biden. Pure a livello di Nato, la posizione è chiara. Però, io penso sia il momento di prendere atto che l’allontanamento fra Europa e Stati Uniti d’America è un fatto strutturale. Ci sono grandi questioni economico-commerciali che ci dividono: pensiamo alla protezione dei dati, alla tassazione sui profitti delle grandi società del Web, solo per fare due esempi. Magari con Biden ci sarebbe meno tensione, e pure alcuni Paesi europei avrebbero atteggiamenti meno aggressivi. Ma a Washington, gli equilibri interni all’Ue non interessano più: questo vuol dire che l’Italia si deve gestire diversamente, in autonomia, ripensando i rapporti con i suoi partner europei.
Neanche il cortile di casa sudamericano interessa più alla Casa Bianca?
A parte alcuni casi specifici, come il Messico, direi che l’atteggiamento americano è quello del fratello maggiore cui non è neanche più necessario “bullizzare” i fratelli minori per farsi rispettare.
Con il Venezuela, però, almeno in una prima fase, l’interessamento c’è stato...
Ed è stato controproducente, perché ha riportato la Russia sotto casa. In sintesi, meglio non sovraesporsi in Sudamerica, non siamo più negli anni ’70. Per il Venezuela, questo vuol dire che Washington lascerà che imploda, che “crolli su se stesso”.