Muno Bheel appartiene alla minoranza indù del Pakistan. Per potere estinguere un debito, per 13 anni ha lavorato come bracciante, in condizioni di schiavitù, per un influente possidente della provincia meridionale del Sindh, Abdul Rehman Mari. Oggi, Muno è alla ricerca disperata dei suoi familiari detenuti da lungo tempo in una località ignota, a garanzia della restituzione del debito che nel frattempo non ha mai cessato di crescere.Per la sua eccezionalità, la storia di Muno ha raggiunto i media locali, ma si situa in un contesto ben noto nel grande paese musulmano asiatico, dove la schiavitù in ambito rurale è una delle varie forme del lavoro coatto, forse la più odiosa per i metodi e per le circostanze che la caratterizzano.Una vicenda, la sua, iniziata nel 1997 ma che sembrava essersi risolta con la liberazione dei suoi congiunti all’inizio del 1998, decretata da un tribunale del Sindh su richiesta della Commissione per i diritti umani pachistana. Invece pochi mesi dopo, il 2 maggio di quell’anno, lo stesso Mari con un gruppo di uomini armati entrava nella sua casa, nel villaggio di Jam Waryam Memon, e rapiva nove membri della famiglia, inclusi i due anziani genitori, la moglie, le figlie e un figlio, da allora scomparsi.La denuncia depositata al posto di polizia della vicina città di Jhudo non ha attivato alcuna indagine. Da allora, Muno ha bussato a tutte le porte e interpellato tutti coloro che in qualche modo potessero aiutarlo nella sua ricerca, finendo per intraprendere il più lungo «sciopero della fame» della storia del paese, durato 1.287 giorni, davanti all’Associazione della stampa di Hyderabad, il capoluogo del Sindh.La sua tenacia ha richiamato l’attenzione del Consiglio per la pace e i diritti umani, un’organizzazione pachistana il cui intervento ha portato nel 2006 all’arresto di Mari. Cancellato il successivo rilascio su cauzione con una sentenza dell’Alta Corte del Sindh, il latifondista ha scontato 18 mesi di carcere a Hyderabad. In questo periodo, ancora una volta, la polizia non è riuscita però a liberare la famiglia di Muno Bheel dalla prigione privata identificata presso la città di Jhol, nel distretto di Sanghar. Da allora, di essa si sono perse le tracce. Probabilmente, com’è pratica quando la situazione diventa pericolosa per gli aguzzini, essa è stata venduta a rami collaterali della famiglia del possidente nella confinante provincia del Balochistan.La loro storia non è certamente unica e, come tante, sembra essere senza speranza. Quella della provincia meridionale del Sindh è una società feudale, dove è normale che il proprietario terriero conceda a ogni famiglia che lavora per lui il minimo indispensabile perché continuino a vivere al suo servizio. In teoria, a ciascun capofamiglia spetterebbe una parte del raccolto e di conseguenza, in occasione di annate favorevoli, ci sarebbe la possibilità di estinguere il debito iniziale. Di fatto, ai lavoratori viene quasi sempre comunicato che il debito è cresciuto e non diminuito. Spesso si è anzi moltiplicato, al punto che toccherà ai figli e ai nipoti estinguerlo, se ne saranno capaci, sempre in condizione di schiavitù. Essi non possono uscire dalle proprietà del loro "padrone" e in molti casi sono incatenati affinché non possano fuggire, o sottoposti a stretta vigilanza o, ancora, ricattati dalla prospettiva di violenze su congiunti. Nonostante una legge (Sindh Tenancy Act) preveda che proprietari terrieri e lavoratori condividano il raccolto in modo equo, la responsabilità ricade sul funzionario incaricato di distretto, facilmente ricattabile o corruttibile.Alla base di una drammatica consuetudine che colpisce e devasta la vita di tante persone stanno i debiti, incentivati e gestiti dagli stessi latifondisti. Tuttavia un simile vincolo si ritrova anche nelle fornaci per la fabbricazione dei mattoni, nel lavoro domestico (soprattutto rispetto alle donne e ai bambini), nella produzione dei tappeti e nelle miniere. «In teoria, questa forma di schiavitù dovrebbe essere stata abolita con la Legge sul Sistema di lavoro coatto del 1992, e i responsabili perseguiti. In realtà non è così, dato che il potere politico e finanziario dei latifondisti consente loro di continuare ad utilizzare la schiavitù nell’assoluta impunità», dice Ahmad Ali, docente di teorie economiche a Lahore, capoluogo della provincia del Punjab.«La mancanza di tutele per la forza lavoro agricola – prosegue Ali – è una delle ragioni della persistenza di queste pratiche di sfruttamento. Data la vulnerabilità dei contadini senza terra, ai quali è nei fatti negata anche la possibilità di avere proprie rappresentanze sindacali o un coordinamento, è evidente che occorre cercare strumenti che bilancino una situazione al momento del tutto a favore dei possidenti. Se non si prenderanno provvedimenti per migliorare la vita dei braccianti, accrescere la produttività agricola per raggiungere l’autosufficienza alimentare e sradicare la povertà rurale, resteranno solo obiettivi di principio».Coloro che più facilmente sono sottoposti a una qualche forma di schiavitù provengono soprattutto da gruppi marginali della società, inclusi migranti interni e minoranze che già si trovano a subire discriminazione sociale e disinteresse da parte delle autorità. Seppure non in senso stretto, esiste una correlazione tra sfruttamento e appartenenza a una minoranza religiosa. Non a caso, forse, le aree maggiormente colpite dal fenomeno nel Sindh – i distretti di Sanghar, Mirpurkhas e Thar – a finire nelle carceri private dei latifondisti sono in maggioranza appartenenti alle comunità Bheel, Kolhi e Meghwar, di fede indù, e altrove anche i contadini cristiani.