Miseri villaggi rurali, segnati da una diffusa povertà economica, umana e culturale, che ancora vivono la lontana attesa dei «tempi moderni», si riflettono nel finestrino dell’automobile. Fotogrammi di un vecchio film in bianco e nero, mentre il veicolo che ci trasporta procede sulle polverose strade del distretto di Kandhamal, cercando di scansare vacche sacre e giovani capretti che vagano in libertà. Casupole tutte uguali e malconce si succedono l’una all’altra, avvolte dall’aria appiccicosa dell’umido mattino, accanto i loro incerti braceri, in cui è misero anche il fuoco che brucia. Ci vogliono sette ore di viaggio per fare 200 chilometri nel territorio che un giornale indiano ha definito «una terra diventata sinonimo dell’odio nel nome di Dio». Sette ore per risalire le sue montagne, le sue foreste, nel cuore dello Stato di Orissa. Il più povero in assoluto dei 28 Stati che costituiscono l’Unione indiana; il più arretrato per scolarizzazione, assistenza sanitaria e indici di benessere. Dove l’88 per cento della terra appartiene allo Stato. Qui i bambini con la zappa in spalla non sanno che cos’è una scuola e molti anziani languono accasciati ai margini della società, soltanto una pezza sfrangiata, sporca, gettata sulla schiena, senza il conforto di una medicina. Storpi e malati si arrangiano come possono, le donne lavorano nei campi e poi dovranno occuparsi del cibo per i mariti e i figli. Occhi di questo pezzo di continente indiano, terra dei più miseri tra i miseri, ma anche 'laboratorio' di una pulizia religiosa e di classe, perché i cristiani sono considerati un argine alla costruzione del pensiero unico, del fanatismo nazionalista e estremista indù, che divide il mondo in rigide caste e che urla il suo slogan della paura: «Bharat mata ki joy», essere indù per salvare la madre India. Nell’agosto del 2008, in conseguenza dell’assassinio di un capo radicale politico e religioso indù, Swami Laxmanananda Saraswati, benché un gruppo armato maoista avesse rivendicato l’omicidio, gli induisti attaccarono la comunità cristiana. A distanza di mesi, vivere da cristiani nell’agitata Orissa (34 milioni di abitanti; l’1% quelli che pregano Gesù Cristo, il 18% risiede nel distretto di Kandhamal) continua a essere pericoloso. «È come stare in una bolla di luce, circondata da una nebulosa di incertezza e paura», fa notare un religioso indiano. Sulla strada le tracce, le ferite di quanto accaduto nei mesi passati restano impresse e ben evidenti. Il convento bruciato, la chiesa cattolica distrutta, dove la gente, comunque e nonostante la paura, torna a radunarsi per una preghiera, i centri della Caritas locale e della pastorale con le porte sfondate dai colpi d’accetta e ogni cosa incenerita, i computer sfasciati, i libri affumicati, le statue del presepe fuse dal forte calore, le fotografie dei giorni felici ridotte a sfoglie di carbone. Impressiona la distruzione delle povere case appartenute ai cristiani e delle chiese costruite di terra impastata a paglia, che la rabbia indù ha trasformato in roghi sui quali gettare madonne decapitate, libri religiosi, tabernacoli violati e statue dei santi pestate con così tanta rabbia da essere ridotte in briciole. Come il marchio in rilievo del dolore che ha segnato un corpo senza sollievo, improvvisate tendopoli raccolgono decine di famiglie di sfollati, perché nessuno li vuole e nessun altro li aiuta. Sorgono accanto a ciò che resta di un villaggio o di un pugno di casupole di contadini cristiani o al riparo di una missione sopravvissuta alla rabbia distruttrice indù, ma anche tra le mura di un lebbrosario gestito dalle suore missionarie della carità di madre Teresa di Calcutta, «Non piangere. Dio ti aiuta», dice il nostro accompagnatore rivolgendosi a un padre di famiglia in lacrime nel raccontare la sua storia.L’uomo, balbettando, risponde: «Quando potrò tornare alla mia casa? Non è rimasto più niente. Mi hanno bruciato la casa. Quella è la terra dove sono nato. Dove vado? Chi mi aiuterà? ». Nella tendopoli, il calore fonde gli odori mentre le persone si radunano. Sono facce che hanno lo stesso colore della terra. Tutti dicono di quando il grido degli indù ha rotto il silenzio della notte e le torce hanno illuminato i villaggi per poi ardere e uccidere. Raccontano della paura che ancora portano negli occhi. «Siamo fuggiti nella foresta. Senza niente da mangiare per giorni», spiegano. Persi nel silenzio di una vegetazione dove strisciano i cobra. Senza avere notizie dei propri cari, dei vicini di casa. Con le mani a tapparsi le orecchie per non sentire le grida di dolore di chi era picchiato a sangue, o della donna costretta a subire una brutale violenza. Ma anche l’ultimo gemito di chi veniva ucciso. Dalla foresta vedevano bruciare la loro chiesa e sentivano l’ultima oltraggiosa scampanacciata. E davanti alla minaccia di essere ucciso c’era chi non riusciva a dire no: conversione forzata all’induismo in cambio della propria vita. «Strappare la Bibbia e poi bruciarla », ricorda l’uomo che piange, mentre altre voci che si fanno forza offrono adesso storie di famiglie miste: un cristiano sposato a una indù, rincorsi dalle minacce selvagge al loro figlio maschio da bruciare vivo. Ma ancora più atroce è l’ascoltare la storia di chi dopo essere stato bastonato fin quasi alla morte «è stato sepolto vivo, mentre attorno gli assalitori gli gridavano: 'Adesso aspetta il tuo Gesù che ti verrà a salvare'».
La vicenda. Le violenze contro i cristiani in Orissa, a partire dal 24 agosto 2008, hanno provocato la fuga di 10.000 famiglie, pari a circa 54.000 persone. Sono un’ottantina i morti accertati, secondo le fonti della Caritas diocesana di Bhubaneswar, capitale dello Stato di Orissa; secondo il governo locale, le vittime sono invece poco più di quaranta. Oltre 5mila le case devastate o bruciate; 392 i villaggi coinvolti nelle violenze. Mentre 149 sono le chiese cattoliche e protestanti danneggiate o completamente distrutte. Una quarantina sono le scuole gestite dai cristiani e i centri destinati alla pastorale e alla catechesi che hanno riportato danni.