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Reportage. Angola, nell'ospedale all'ultimo miglio della sopravvivenza

Claudio Monici, inviato a Chiulo (Angola) sabato 29 dicembre 2018

Una mamma con i bimbi nell'ospedale di Chiulo (foto Monici)

Anche l’alba sembra essersi ammantata di tristezza, in questo mattino di dicembre africano. Il cielo è insolitamente grigio e basso all’orizzonte. Come se sapesse già tutto.

I primi raggi di sole bucano la notte e il termometro punta già a raggiungere i 30 gradi. Un caldo pesante e secco: impossibile dormire sotto la cupola della zanzariera che serve a tenere lontana la perfida malaria, nella piccola stanza del compound della casa dei dottori italiani. Quella appena finita è stata una notte particolarmente difficile. Passata a rigirarsi nella branda cercando un poco di sollievo, ma soprattutto ad allontanare dagli occhi gli spasmi dolorosi e furiosi del giovane Fernando. Si ribellava pazzo tra le braccia della madre, sotto lo sguardo muto del nonno. E quello impotente e distrutto nel cuore della pediatra italiana, che sapeva. Che conosceva l’esito di una feroce verità. Finalmente nuvole candide, in un cielo maculato come la pelle del leopardo, viaggiano alte portandosi via il buio. Liberando poco a poco un immenso firmamento che diventa sempre più azzurro. Stupefacente, limpido come acqua pura. Le acacie dai grandi fiori rossi che sembrano orchidee giganti, gli oleandri rosa e quegli alberi dalle foglie verdi smeraldo in pieno rigoglio di corolle bianche e carnose dall’inteso profumo sbocciano ovunque in questa savana semiarida. Dove i maestosi baobab ti osservano come giganti buoni e silenziosi. È anche la stagione dei manghi. E gli alberi che crescono liberi, robusti e ovunque, hanno le chiome gravide di frutti gonfi di polpa.

Ma i piccoli occhi di Fernando tutto questo creato non lo vedranno mai più. È morto alle quattro del mattino, Fernando. Aveva cinque anni e pesava 13 chili. Come un bambino di due anni. È morto male, in poche ore, tra dolore e follia. Ucciso da una encefalite rabida. La rabbia canina. Il morso di un cane infetto gli è stato fatale. È già accaduto ad altri, qui in questo posto lontano da tutto e da tutti. Ma Fernando e molti altri come lui sono morti semplicemente perché il vaccino antirabbico è introvabile o non ci sono i soldi per acquistarlo. E intanto il virus continua a diffondersi, nel vagare solitario di timorosi e macilenti cani randagi.

Chiulo è un luogo nel nulla, nella provincia del Cunene che è grande quasi quanto il nord Italia. Un punto di savana, a ridosso del confine con la Namibia, che gravita attorno a un ospedale coloniale con duecento brande e a una chiesetta missionaria al centro di una tra le province più aride dell’Angola meridionale. Qui a metà giornata si toccano i 41 gradi. La capitale Luanda è lontana 1.200 chilometri. Nel Cunene, le agenzie umanitarie dell’Onu sono già in stato di allerta. Una grave emergenza alimentare raggiungerà il suo picco nel mese di gennaio. E pensare che solo cinque anni fa, quando il prezzo del petrolio al barile volava alto, l’Angola era in pieno boom economico. Oggi a Luanda ci sono tanti grattacieli che sono scheletri incompleti, e nelle periferie la fame avanza.

Gli abitanti di quest’Africa lontana, circa 300mila nella municipalità di Ombadja, dove si trova l’ospedale di Chiulo, che è di proprietà della diocesi di Ondjiva, ma di fatto sostenuto dal governo provinciale, possono fare affidamento su di un team di dottori italiani di «Medici con l’Africa-Cuamm». La più grande organizzazione medica italiana che dal 1950 è impegnata in progetti che garantiscono la salute delle popolazioni africane, attraverso la formazione del personale medico locale. «Con l’Africa, e non per l’Africa», ama ripetere il dottore don Dante Carraro, direttore dell’organizzazione che ha sede a Padova. Prevenzione dell’Hiv/ Aids, tubercolosi e malnutrizione infantile, riduzione della mortalità materna e neonatale, possibilità di partorire gratuitamente in ospedale e nei centri di salute pubblica sparsi nella savana. Sono questi alcuni dei punti di merito della missione Cuamm nel Cunene. «Chiulo non è un villaggio, non è una città, ma un gruppo di capanne, baracche e casupole, che ruota attorno a una chiesetta sorta nel 1916 e a un ospedale costruito nel 1950, che ha sempre funzionato. Anche negli anni della guerra civile, grazie alla presenza di tre suore chirurghe irlandesi. Fino al 2000, quando è arrivato Cuamm – racconta il capo missione, il dottor Carlo Caresia –. Qui tutti viviamo in una situazione sociale decisamente povera e provvisoria».

L’ospedale anche se è di proprietà della Chiesa locale, strutturalmente è affidato all’autorità provinciale che qui invia il proprio personale medico. E, quando si trovano i soldi, anche le medicine. Ma non sempre è facile reperire le risorse umane per un luogo così sperduto e disagiato. «Chiulo è l’ultimo miglio della sopravvivenza», osserva don Dante. La città più «vicina» è Lubango, lontana 260 chilometri. E questo spiega quanto sia difficile reperire medici angolani disposti a trasferirsi dove non esiste nulla, per rimanerci tre anni. Appena possono scappano.

Eppure, in questo ospedale sotto la direzione clinica del «Cuamm» – che garantisce 1.500 parti all’anno – e quella generale del primario locale, una donna, non manca quasi nulla. Un buon centro trasfusionale con annessa banca del sangue e un laboratorio per i test post prelievi che garantiscono controlli su Hiv, epatiti, malaria sifilide, febbre dengue. Alla stregua di una struttura sanitaria di una nostra provincia con reparti di medicina, pediatria, ginecologia, farmacia e laboratori. E da pochi giorni anche la chirurgia, con l’arrivo di un dottore italiano. Ma si sa, in Africa i problemi non finiscono mai. Il pozzo si è seccato, le tubature sono vecchie, logore. e perdono. Da un pezzo, l’acqua corrente non arriva più all’ospedale. E questo ha messo in crisi soprattutto il reparto di pediatria. E chi sta risolvendo il problema, intanto che il governo provinciale, a parole, ha promesso un nuovo impianto idrico? Il team di Medici con l’Africa. Un’autobotte, a pagamento, una volta alla settimana fa la spola tra il fiume Cunene e l’ospedale di Chiulo.

Mentre il generatore elettrico a benzina non si ferma mai per non interrompere la corrente che serve ad alimentare un compressore di ossigeno per un piccolo paziente. Che si ostina a vivere, tra le braccia di questi medici per l’Africa.