Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama intende ottenere dal G8 un nuovo sforzo nei confronti dei Paesi poveri, quelli maggiormente colpiti dalla recessione globale. Obama lo ha sottolineato nell’intervista, pubblicata ieri, rilasciata ad “Avvenire” e a “ Radio Vaticana”, che ha avuto un’ampia eco sui media. Nell’agenda dei tre giorni dell’Aquila, peraltro, sono previsti colloqui tra gli otto Grandi e numerosi Paesi del Sud del mondo, tra i quali anche Angola, Nigeria, Egitto, Sudafrica, Senegal e Indonesia. Presenti anche potenze emergenti come Cina e Brasile. Gli ultimi dati degli organismi internazionali su povertà e insicurezza alimentare nel mondo sono allarmanti. Nei giorni scorsi la Fao ha reso noto che più di un miliardo di persone soffre la fame: è un dato record, provocato anche dalla crisi economica mondiale e dall’aumento dei prezzi, ma soprattutto dallo scarso sviluppo dei Paesi poveri. Rispetto a un anno fa sono 100 milioni in più coloro che sono afflitti da denutrizione e povertà, in gran parte piccoli contadini che non riescono a produrre cibo a sufficienza per sostenere le proprie famiglie.
ASIADivario in aumento tra ricchi e indigenti Stefano Vecchia Asia che cresce, si arresta, forse arretra. Ma che continua a mantenere il triste primato dei due terzi dei poveri del pianeta. Difficoltà comuni alle altre aree del globo, ma con un vantaggio che deriva dalla tumultuosa rincorsa alla ricchezza e al benessere che ha preceduto le ultime fasi della crisi in atto. Rivisti i conti, le prospettive di sviluppo dell’economia indiana per l’anno in corso segnano ancora un più 7 per cento. Un record a livello mondiale. In positivo, ma questo non basta a far ignorare le gravi difficoltà che ancora una volta si scaricano sui settori più deboli della popolazione indiana e asiatica in generale. Di 1,2 miliardi di abitanti del continente che vivono con difficoltà crescenti la congiuntura attuale, i veri poveri – quelli a cui sono negati, insieme ad una alimentazione sufficiente, anche cure mediche, iscrizioni scolastiche, opportunità speranza e dignità – sono passati in meno di due anni da 300 a 400 milioni. Con una crescita maggiore proprio nel subcontinente indiano, con una preponderanza per quanto riguarda Bangladesh, Nepal e Pakistan. Ancora una volta la fame torna a riaffacciarsi sul continente che vede i maggiori esportatori mondiali di alcune derrate alimentari (Thailandia e Vietnam, ma anche la stessa India e il Myanmar per annate particolarmente favorevoli, il preziosissimo riso, ad esempio) e ne è insieme massiccio importatore (i Paesi più sviluppati e diversi tra quelli più poveri, tra cui Bangladesh, Filippine, Corea del Nord).Tra le ragioni non c’è tanto la disponibilità reale di molti beni di prima necessità, quanto il loro costo crescente. La speculazione che ha portato, ad esempio, il riso – alimento principe del continente – a triplicare il suo prezzo circa un anno fa, ha ora ridimensionato la sua morsa, tuttavia il prezioso chicco resta oggetto di attenzione e di tensioni al rialzo, a maggior ragione in vista di una annata che non dovrebbe presentarsi particolarmente favorevole. La dipendenza dall’export ha reso particolarmente fragili molte economie locali e la mancanza di ammortizzatori sociali in quasi tutti i Paesi in via di sviluppo della regione ha ulteriormente allargato la disoccupazione e la sotto-occupazione, accelerando il trend di un crescente divario tra ricchi e poveri.
AMERICA LATINAIl boom è già finito: giù export e rimesseMichela CoricelliIndici e percentuali non sono infallibili: i panieri fissati dai diversi Paesi a volte non sono del tutto aggiornati e il costo della vita continua ad aumentare. Al di là delle teorie, quel che conta sono i cartellini esposti sui banchi dei mercati popolari: i prezzi del riso, del mais o dei fagioli possono cambiare (e in peggio) la vita di milioni di famiglie. Gli standard generali dicono che in America Latina oltre 181 milioni di persone vivono in una situazione di povertà. Di questi, 70 milioni – ovvero il 13% del totale – tentano di sopravvivere in una fascia asfissiante, che gli esperti definiscono «estrema povertà». L’America Latina ha fatto importanti passi in avanti negli ultimi anni: dal 2000 al 2007 il tasso di povertà è diminuito del 9%. Ma i risultati positivi alimentati da un periodo di crescita, stabilità e investimenti, vacillano a causa della crisi internazionale: il rischio è tornare indietro.La regione affronta la sua prima recessione in sette anni e le immediate conseguenze sono l’aumento della disoccupazione (nel 2009 tre milioni di senza lavoro in più) e la miseria: altri 8 milioni di persone finiranno in povertà. Pochi Paesi riusciranno ad evitare pesanti ricadute: il Perù (sulla scia del boom degli ultimi anni) potrebbe essere un’eccezione, ma le classi più povere del Paese andino denunciano gravissimi squilibri nella distribuzione del reddito. Non soffriranno sono le fasce più deboli: la classe media latinoamericana sarà fortemente colpita dalla crisi, anche a causa del crollo delle esportazioni. L’America latina continua a vendere all’estero soprattutto materie prime, petrolio, prodotti minerari o agricoli, e i prezzi risentono della situazione mondiale. Insieme all’export, la crisi comporta la diminuzione degli investimenti diretti da parte dei Paesi più ricchi, impegnati in una drastica riduzione dei costi. Non ultimo, c’è il problema delle rimesse degli emigrati, vitali soprattutto in Messico e in Centroamerica: nel 2009 potrebbero calare fra il 4% e il 10%.
AFRICA«Scambi più liberi e infrastrutture»Paolo M. AlfieriMigliorare l’accesso al credito, resistere alla tentazione di erigere barriere ai commerci, incentivare le infrastrutture, investire su sanità ed istruzione, rafforzare le istituzioni di governo. Sono queste le principali raccomandazioni di Banca mondiale, Forum economico mondiale e Banca per lo sviluppo africano, contenute nell’ultimo rapporto sulla competitività del continente nero. Lo studio mette a nudo le debolezze africane anche alla luce delle nuove minacce portate dalla crisi economica, e suggerisce, al contempo, i necessari correttivi. La ricetta per migliorare la competitività dell’economia africana a livello globale, secondo il rapporto, è costituita da due obiettivi a breve termine e tre a lungo termine. Occorre, innanzitutto, creare sistemi finanziari più efficienti e inclusivi, con un aumento dell’accesso al credito, oltre a mantenere i mercati il più possibile aperti. Secondo gli esperti, infatti, la crisi globale ha rafforzato negli ultimi tempi i sostenitori delle teorie del protezionismo. Se queste ultime venissero applicate, ad esempio con l’adozione di forti barriere doganali, gli spazi per gli scambi si restringerebbero, la domanda si ridurrebbe ulteriormente e la crescita diventerebbe ancora più compressa. L’inversione di tendenza nel campo dello sviluppo africano, però, non potrà avvenire senza investimenti nelle infrastrutture. I problemi nei settori dell’energia e dei trasporti sono, ad esempio, tra i principali nodi che bloccano crescita e competitività. Migliorare le infrastrutture non solo contribuirebbero alla crescita, ma farebbe anche da stimolo fiscale in un momento critico come quello attuale. Il potenziale produttivo dell’Africa, poi, è gravemente limitato dalle carenze negli ambiti dell’istruzione (si pensi alla mancanza di forza lavoro qualificata) e della sanità, probabilmente i settori nei quali va posta più urgentemente l’attenzione dei governi. Proprio ai governi, peraltro, è rivolta l’ultima raccomandazione del rapporto. Senza ambienti istituzionali trasparenti e forti, infatti, difficilmente l’Africa potrà sperare in un futuro più sereno. Prova ne è il fatto che proprio nei Paesi in cui prevale una buona governance (tra gli altri Sudafrica, Botswana, Marocco e Ghana) si sono riscontrati negli ultimi anni i maggiori miglioramenti anche sul fronte dello sviluppo economico.