Le presidenziali. Il «fragile» Afghanistan vota, i taleban attaccano
Donne con il burqa in un seggio a Kandahar (Ansa)
Almeno due persone morte in vari attentati durante lo svolgimento delle elezioni presidenziali in Afghanistan. Diciassette i feriti, a dette delle autorità locali. Presso un seggio elettorale nella provincia orientale di Nangarhar, nel distretto di Sorkh Rod, l'esplosione di una mina ha causato una vittima e 3 feriti, come riferito da rappresentanti del consiglio provinciale di Sohrab Kaderi.
E un osservatore alle operazioni di voto è morto in seguito al lancio di un razzo nei pressi di un seggio a Kunduz, nel nord del Paese, come riferito dal consigliere provinciale Maulawi Abdullah.
Per quello che riguarda l'attentato di stamattina a Kandahar in cui sono stati ferite 15 persone tra civili ed un agente di polizia, la bomba deflagrata era stata nascosta all'interno di un amplificatore di una moschea utilizzata come seggio. Complessivamente a Kandahar sono state disinnescate o fatte brillare dalle forze di sicurezza afgane almeno 31 esplosivi. Piccole esplosioni sono state segnalate anche nella capitale Kabul, ma non ci sono ancora notizie certe su possibili feriti. Sono 9,6 milioni gli elettori registrati al voto. Le elezioni si svolgono in presenza di massicce misure di sicurezza, anche a causa delle ripetute minacce da parte dei talebani. Circa un terzo dei seggi infatti rimane chiuse, dato che si trovano in territori controllati dai taleban.
Che cosa possiamo aspettarci dalle elezioni presidenziali afghane di oggi lo sappiamo già da ora: brogli sistematici, accuse reciproche fra i candidati, voti contestati dagli scon-fitti, violenze da parte dei taliban che cercheranno di far strage fra i votanti. Da quando è stato sconfitto il crudele emirato islamico del mullah Omar nel 2001, non c’è elezione in quel Paese che sia andata diversamente. Durante le elezioni presidenziali del 2009, si rincorsero notizie di seggi in cui si ebbe una partecipazione di votanti superiore al 100 per cento: risultato invero strabiliante, oltre che divertente, reso possibile dalla pratica di buttare nelle urne pacchi di schede già votate da parte delle milizie dei diversi candidati. Insomma, si può dire tutto il peggio su queste elezioni.
Già alcuni candidati mettono le mani avanti, sostenendo che l’improvvisa riduzione dei seggi elettorali nel Paese, da più di settemila a circa cinquemila, non sia veramente dovuta a ragioni di sicurezza – nelle aree più minacciate non si potrà di fatto votare – ma rappresenti uno stratagemma del presidente Ashraf Ghani, che punta alla riconferma, per alterare il voto, impedendolo nelle aree a lui meno favorevoli. Ma le accuse di scorrettezze, abusi e mercimonio di voti possono essere mosse a pressoché tutti i candidati. Fra i quali spicca la presenza anche di Gulboddin Hekmatyar, un vecchio mujaheddin del tempo della guerra contro l’Armata Rossa e uno dei personaggi più ignobili della storia contemporanea dell’Afghanistan: un fanatico islamista e un criminale responsabile di eccidi contro la sua stessa popolazione. In fatto che possa presentarsi è sinceramente preoccupante.
L'errore di sottovalutare
Allora si potrebbe pensare che in fondo queste elezioni non siano importanti: che si tengano o meno, poco cambia. E questo sarebbe un grave errore. Con tutti i loro evidenti, macroscopici limiti, è importante che in Afghanistan vi siano elezioni e vi sia una campagna elettorale. Una democrazia claudicante e imperfetta è meglio di nessuna. Una folla di candidati spesso improbabili è meglio di un candidato unico, sicuro vincente. Pratica ancora troppo comune nel mondo islamico. E certo meglio di nessun candidato, come vorrebbero i taleban.
Perché continuare a credere nella fragile democrazia di Kabul è il miglior antidoto al ritorno dei sanguinari “studenti del Corano”, che – come a ogni appuntamento elettorale – stanno facendo tutto il possibile per tenere gli afghani lontano dai seggi. Tramite attentati e stragi indiscriminate, ritorsioni e minacce a chi si reca al voto. Già questo dovrebbe bastare a convincerci: se i taleban temono qualcosa, allora quel qualcosa merita di essere protetto. E dobbiamo ringraziare – almeno per il momento – l’insperato soprassalto di saggezza del presidente Trump che, all’improvviso, ha cancellato poche settimane fa un incontro a Camp David per suggellare degli avventati accordi bi- laterali fra gli Stati Uniti e i rappresentati dei taliban (o di parte di queste composite milizie).
La corruzione dilagante
Un compromesso concordato alle spalle del governo ufficiale di Kabul e che sembrava concedere troppo a chi ha insanguinato per decenni la storia dell’Afghanistan. Senza ottenere neppure la certezza di un cessate il fuoco per fermare gli scontri con le forze armate nazionali o almeno gli attacchi contro i civili. Questo pasticcio sembra al momento essere tramontato. Certo, chiunque vinca le elezioni si troverà di fronte problemi giganteschi: un Paese poverissimo, una corruzione dilagante, una comunità internazionale stanca di pensare alla stabilità di questo Stato che ha inghiottito soldati e soldi come una macina infernale, senza aver in cambio risultati duraturi. Avrà la minaccia degli insorti islamisti, che controllano ormai diverse province e che non si riesce a sconfiggere, con l’obbligo di dover avviare dei difficili negoziati di pace. Ma avrà anche dimostrato che la gracile piantina dell’ideale democratico rifiuta ostinata di seccarsi. Non darà mai forse ombra e ristoro, ma per il momento spicca ancora fra le aride, impervie montagne dell’Afghanistan.