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L'intervista. «Un attacco Usa servirebbe a poco»

Susan Dabbous domenica 22 giugno 2014
«Hanno preso tutto, aeroporti, armi, carri armati e kalashnikov». Jabar Yawar Manda, segretario generale del Ministero dei Peshmerga, l’esercito curdo della regione autonoma del Kurdistan iracheno, mostra tutte le città sotto controllo dell’Isis tra l’Est della Siria e l’Ovest dell’Iraq. Davanti a sé un’enorme mappa dove segnala con una penna luminosa: Mosul, Tikrit, Tal Afar, Falluja, in Iraq. Raqqa, Deir el-Zour in Siria. Tutte località a ridosso dei confini della regione autonoma tanto agognata dagli indipendentisti curdi e oggi difesa col sangue. Sulla scrivania poche carte, in bacheca invece molte foto antiche e attuali, con le massime cariche istituzionali ma anche con i marine americani in versione addestratori. Generale Manda, gli Stati Uniti forse non sferreranno un attacco aereo contro l’Isis, deluso? Non volevamo un intervento sinceramente, non sarebbe servito a nulla, se non a creare più confusione e generare più vittime e pro- fughi. La soluzione in Iraq può essere solo politica. Ci deve essere un incontro tra leader di tutti i partiti, tra capi tribù e religiosi sciiti, sunniti e cristiani. Solo allora anche noi militari potremmo fare la nostra parte. Ma la soluzione politica sembra al momento impossibile, gli sciiti hanno chiamato alle armi per rispondere all’attacco dei sunniti … Alcuni segnali d’incontro informale ci sono già, sunniti, sciiti e curdi devono sedersi allo stesso tavolo, dobbiamo bloccare ora una guerra civile che potrebbe perpetrarsi per anni. Senza un intervento massiccio non temete di essere attaccati? Certo, il pericolo che l’Isis possa penetrare nel nostro territorio è reale e costante. Abbiamo in comune più di mille chilometri di confine. Ma noi siamo abituati a combattere da anni, decenni, da un secolo direi. In Kurdistan c’è un grande spirito patriottico, per proteggere la nostra terra, anche i civili si arruolerebbero volontariamente. Ma al momento non ce n’è bisogno abbiamo 350.000 tra soldati e riservisti pronti all’impiego. Che tipo di armi avete per proteggervi? Abbiamo anti-tank ma non abbiamo missili anti-aereo, che però per combattere l’Isis non servono: loro non hanno aerei. Seppure ormai si sono impossessati di molte caserme e depositi di armi dell’esercito a Mosul e Tikrit. È vero che Maliki vi ha chiesto di proteggere Mosul? No. Non ce l’hanno chiesto formalmente, e se lo facessero non potremmo farlo, se non ci è riuscito l’esercito iracheno perché dovremmo noi? Però a Kirkuk, molto ricca di petrolio, ci siete andati. Molti vedono questa “difesa” come una forma di annessione. È una percezione sbagliata creata dai media. Noi eravamo già a Kirkuk prima di questa crisi, nella città il 40 per cento della popolazione è curda. C’era una cooperazione continua con l’esercito iracheno, abbiamo solo preso i checkpoint e le caserme abbandonate. Quando l’esercito iracheno tornerà, quindi, voi andrete via? Credo che continueremo a collaborare come sempre. Ha informazioni su cosa succede invece nella zona di Mosul? Abbiamo 100.000 profughi di Mosul a Erbil, i cellulari funzionano, le persone parlano in continuazione con i parenti. La situazione è tesa ma ancora non esplosiva, perché l’Isis è controllata dall’élite sunnita locale. Quanto all’emergenza umanitaria, stiamo cercando di arginarla il più possibile mandando tutto da Erbil. Acqua, elettricità cibo, stiamo rifornendo la città che ricordiamo ha 2 milioni di abitanti. Da una settimana a questa parte, Baghdad ha tagliato tutto.