Ucraina. Sei generali russi silurati in 10 mesi, ma i conti di Putin non tornano
Il presidente russo Vladimir Putin e il generale Valery Gerasimov
Non c’è pace per i comandanti russi. In dieci mesi di guerra, il Cremlino ne ha fatti fuori sei, segno delle difficoltà irriducibili dell’Armata Rossa. Sergeij Surovikin è l’ennesima vittima. È durato solo tre mesi, come prima di lui Dvornikov e Zhidko. Senza fanfare, Vladimir Putin l’ha silurato, degradandolo a mero aiutante di campo di Valeri Gerasimov, capo di Stato maggiore e nuovo numero uno del corpo di spedizione russo in Ucraina.
Lo zar è frenetico: sente che la strategia della pressione irresistibile, ultima carta rimastagli, non sta funzionando. Non è nelle corde russo-sovietiche, da sempre fautrici di guerre lampo. Rivivremo il fallimento che fu di Stalin in Finlandia? Putin non sa come barcamenarsi in una guerra fattasi complicata. Nella sua vita non ha fatto che il politico o l’ufficiale subalterno dell’intelligence. Non ha passato bellico. Affronta alla cieca una crisi militare che pare senza sbocchi. Da giugno a oggi il suo esercito è riuscito a conquistare unicamente Soledar, un paesone che contava appena 11mila abitanti prima del conflitto. Averla espugnata è un fatto d’armi minore, aggravato da costi umani esorbitanti.
L’Istituto per gli studi sulla guerra, molto partigiano, è stranamente cauto. Non azzarda nemmeno una critica allo zar. Vede anzi nell’avvicendamento in Ucraina una mossa ragionevole, in vista della prossima offensiva, data per certa a inizio primavera. Una teoria sposata anche dal quotidiano Izvestia, che plaude alla mossa del Cremlino: «come comandante, Surovikin non aveva autorità sull’aviazione strategica, sulle navi e sullo spionaggio». Era un leader dimezzato, che non poteva coordinare esercito e guardia nazionale. Gli sfuggivano anche le forze di polizia. Gerasimov «galvanizzerà invece le sinergie «fra le varie componenti».
L’azzardo di Putin però sorprende. Sembra dettato da logiche politiche, più che militari, perché Surovikin non meritava il licenziamento. Stava comandando bene. Era riuscito a imporre una visione lineare, riducendo obiettivi e fronte d’attacco. Era parsimonioso con gli uomini e aveva riorganizzato la logistica. Nei tre mesi di comando, gli si possono imputare solo il massacro di Makiinkva e l’eccesso di bombardamenti terroristici, frutto di una fiducia illimitata nelle teorie di Giulio Douhet, fallimentari nelle guerre passate, dai blitz del 1940 agli inutili raid del 1944-45.
Ma Surovikin è stato brillante: ha saputo orchestrare il ritiro da Kherson, compiendo una manovra militare fra le più difficili. Purtroppo per lui non è bastato. La sua carriera è stata stroncata dall’irrazionalità che domina l’operazione russa in Ucraina, fin da febbraio.
Declassando Surovikin, Putin ha voluto forse lanciare un monito a Eugenij Prighozin, capo dei mercenari, e al leader ceceno Kadirov? Il Generale era troppo contiguo al padrone della Wagner e alla galassia nazionalista, mondi estremamente critici verso il ministro della Difesa, Shoigu, e lo stesso Gerasimov, due pupilli di Putin, incapaci di contraddirlo, ma inconsistenti e dannosi nella gestione della guerra. È un cortocircuito che ricorda le traversie del terzo Reich, asserragliato nel bunker: un regime al collasso senza più consapevolezza del campo.
Putin ha scelto i suoi protetti, che l’hanno ingannato più di una volta in passato e che sono i massimi artefici del disastro ucraino dell’Armata Rossa. Il valzer dei generali, fattisi ambiziosi e critici verso il Cremlino, sembra però la via maestra per nuovi fallimenti.