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Ucraina. Il nunzio a Kiev: non è vera pace fermare la guerra per sancire l’occupazione

Giacomo Gambassi, Rimini giovedì 22 agosto 2024

L'incontro sulla guerra in Ucraina al Meeting di Rimini. Sul grande schermo il nunzio apostolico a Kiev, l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas

«Nessuno desidera la pace più di noi ucraini». Oleksandra Matvijcuk si fa interprete del sentimento della sua nazione davanti alla platea del Meeting di Rimini. Ma da avvocata e attivista dei diritti umani, premio Nobel per la pace 2022, spiega anche che cosa intenda per pace il Paese aggredito dalla Russia. Non il congelamento dell’invasione. E non la richiesta all’Ucraina di «cessare la sua resistenza». Perché «ciò significherebbe non la fine del conflitto ma soltanto renderlo invisibile». La leader del “Centro per le libertà civili” di Kiev è ospite della kermesse di Cl e uno dei relatori dell’incontro “Se vuoi la pace, prepara la pace”. Titolo che prende spunto da un’intuizione di don Primo Mazzolari. E tavola rotonda sulla guerra che da due anni e mezzo si combatte alle porte dell’Europa. Una guerra per adesso senza sbocchi, ma su cui aleggia lo spettro – almeno dal punto di vista ucraino – del riconoscimento dello “status quo” per far tacere le armi: i territori strappati da Mosca all’Ucraina, oltre un quarto del Paese, resteranno in mano russa. «Pace vuol dire libertà e prospettive per il futuro. Questo non è possibile in terre controllate da altri», spiega la vincitrice del Nobel che pone l'accento sulle violenze, le torture, le persecuzioni subite da quanti restano nelle aree conquistate dal Cremlino.

Visione condivisa dal nunzio apostolico a Kiev, l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, in collegamento dalla capitale ucraina. «Fermare la guerra ma sancire l’occupazione non è vera pace – avverte –. Si tratta di un concetto che deve essere fatto conoscere al mondo». Il nunzio cita papa Francesco: «Le armi non possono mai essere una soluzione alla guerra. E, aggiungo, neanche le armi della difesa, che sono pur legittime e giustificabili. Proprio perché le armi da sole non arrivano al fondo del problema, non alle cause della guerra». L’arcivescovo parla di «istituzioni nazionali e internazionali inermi» di fronte a ciò che sta accadendo: dai governi occidentali all’Onu. E denuncia la mancanza di «sforzi straordinari che una situazione straordinaria richiede». Da qui l’appello alla società civile che «ha un potenziale enorme». Kulbokas ricorda la generosità di una donna che ha portato nel Paese aiuti per 60 milioni di dollari. O riferisce di «un signore che crede ma che non si identifica in alcuna Chiesa il quale ha aiutato 280 persone a fuggire». Segni di «speranza» arrivati dal basso da chi si prende «a cuore le sfide e ha più possibilità di essere incisivi».

L'incontro sulla guerra in Ucraina al Meeting di Rimini. Sul grande schermo il nunzio apostolico a Kiev, l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas - Gambassi

Perché la prima risposta ai missili è la «solidarietà», sottolinea Oleksandra. E diventa anche via di pace. Come testimoniano le undici missioni sotto le bombe del Mean, il Movimento europeo di azione nonviolenta, raccontate al Meeting dal suo portavoce Angelo Moretti. «A un popolo aggredito viene chiesto di fare la pace – riflette Moretti –. Invece tocca a noi europei impegnarsi in questo senso». Moretti spiega i due sogni del movimento che riunisce sigle del mondo cattolico, del terzo settore, dell’attivismo civico. Il primo: «Dovremmo andare in massa in Ucraina per dire a Putin: “Siamo qui. Attaccaci”». E l’altro: «Da Kiev può nascere una difesa comune europea che non sia affidata solo agli eserciti ma abbia come braccio operativo i corpi civili di pace, chiamati a intervenire prima, durante e dopo gli scontri».

A commuovere la platea sono le parole cariche di sofferenza e speranza di due profughe di guerra: Lali Liparteliani e Anastasia Zolotova, fondatrice e direttrice della Ong ucraina Emmaus che assiste i disabili. Tutti sfollati e trasferiti in Italia. «Li abbiamo portati vita perché non rivivessero la stessa violenza che avevano sperimentato quando sono stati abbandonati dai genitori», rivela Anastasia. Poi confida le domande che si pone chi crede: «Dov’è Dio? Ce lo chiediamo in tanti». E Lali sospira: «La condizione di rifugiata è segnata da un dolore costante e dalla perdita della propria identità». Eppure c’è un sostegno: la fede. «L’appartenenza a Cristo resta il mio punto fermo. Ed è ciò che non mi fa sentire straniera benché sia lontana dalla mia patria».