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Kiev. Ucraina, la tregua a Est non regge

Barbara Uglietti martedì 22 aprile 2014

Aria cattiva in Ucraina: la tregua vacilla e gli ac­cordi firmati a Ginevra settimana scorsa resta­no solo sulla carta. Domenica, una sparatoria a un posto di controllo di Bilbasivka, a pochi chilome­tri da Slaviansk (città dell’Est ancora in mano ai sepa­ratisti) ha riacceso le tensioni. Lo scontro ha provoca­to la morte di tre militanti filorussi e due assalitori e in­nescato una dura catena di reazioni. 

 Ripristinando dinamiche già viste in Crimea, il sinda­co autoproclamato della città, Viaceslav Ponomarev, ha proclamato il coprifuoco e chiesto al presidente V­ladimir Putin di inviare le truppe «per proteggere la po­polazione russofona dai fascisti». Non ha poi rispar­miato parole durissime contro il ministro dell’Interno ucraino, in missione nelle regioni orientali: «Se verrà a Slaviansk – ha detto – sarò il primo a sparargli». 

 Da Mosca, il ministro degli Esteri russo Sergeij Lavrov, ha accusato le autorità di Kiev di «violare grossolana­mente la tregua» e minacciato un intervento di Mosca per «fermare questi tentativi di scatenare una guerra civile». Lavrov è tornato ad attaccare anche sul caso-Maidan, parlando di «occupazione inaccettabile» (an­che se i manifestanti di Piazza Indipendenza continuano a presi­diare il luogo-simbolo con sit-in del tutto pa­cifici e «autorizzati» dal Comune). 

Con pervicacia impermea­bile ai fatti, intanto, il presidente Vladimir Putin continua a inse­guire il suo “sogno eu­roasiatico”, puntando a contenere come può le spinte centrifughe delle ex Repubbliche sovietiche. L’Ucraina è persa, almeno per ora. In compenso la Crimea è stata ripresa. E le turbolen­ze nell’Est gli offrono la sensazione che non tutto sia perduto. La forza però va dosata. E il collante per te­nere insieme il puzzle complicato dell’Est va ben mi­scelato. Così, il capo del Cremlino, cerca (e trova) so­luzioni morbide. Ieri, per esempio, ha promulgato u­na legge solo apparentemente innocua. Il provvedi­mento renderà più facile e veloce l’ottenimento della cittadinanza per i madrelingua russi i cui ascendenti diretti vivano o abbiano vissuto in Russia o in un ter­ritorio che faceva parte dell’impero russo o dell’Urss. Ogni richiesta andrà valutata solo in tre mesi (il prin­cipale requisito è la perfetta conoscenza del russo). Se accettata, l’interessato dovrà rinunciare alla cittadi­nanza precedente ma potrà godere di molti benefici, tra cui programmi di prima accoglienza e di inseri­mento al lavoro. La legge è rivolta soprattutto ai citta­dini della Crimea. Ma è evidente l’effetto-contagio che potrebbe innescare su tutti gli ex Paesi satelliti di Mo­sca. Un’altra legge, sempre firmata ieri, riguarda invece, i ta­tari – la minoranza musulmana della Crimea, circa il 15% della popolazione, che aveva osteggiato l’annes­sione alla Russia – e le altre minoranze della penisola. Si tratta, ha spiegato Putin, di un «decreto di riabilita­zione » di queste comunità dopo le deportazioni stali­niane al termine della Seconda Guerra mondiale. Una strizzatina d’occhio, insomma, che prevede misure so­ciali ed economiche. «Mosca ci vuole comprare», ha de­nunciato uno dei leader della comunità tatara, Mu­stafa Dzhemilev. Del resto, quali siano le reali apertu­re incoraggiate dal Cremlino lo racconta un fatto: ieri, nelle stesse ore in cui Putin firmava il decreto a Mosca, a Sinferopoli, in Crimea, trenta uomini in mimetica hanno attaccato il Parlamentino dei tatari, tirando giù la bandiera ucraina dall’edificio e malmenando tre im­piegate. Non esattamente un segnale di distensione.  Le speranze restano riposte in una forte pressione in­ternazionale. A Kiev è arrivato il vicepresidente ame­ricano Joe Biden per una visita di due giorni. Avrà col­loqui con tutte le più alte cariche ucraine. E, ha an­nunciato ieri sera il Dipartimento di Stato, porterà con sé l’“arma” di “sanzioni dirette” contro Putin. Una mi­sura adottata in passato contro Saddam Hussein e Muammar Gheddafi.