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Ucraina. Kherson, la “città morta” dove chi resta si aggira per strada in cerca di cibo

Giacomo Gambassi, inviato a Kherson sabato 14 gennaio 2023

Una donna mostra a Kherson ciò che resta dopo uno degli attacchi russi quotidiani

Nel sacchetto della spesa Valerij ha il pane e qualche scatoletta di piselli e fagioli, appena comprati nel supermercato “Cilbo”. L’insegna della catena commerciate diffusa in buona parte dell’Ucraina è rimasta intatta nel grande magazzino Tsum. Non le vetrine, sostituite dalle assi di truciolato che adesso rendono il punto vendita un labirinto oscuro dove si fa fatica a muoversi fra gli scaffali. Ha riaperto a Kherson il negozio della strage. Il cratere sull’asfalto che indica il punto in cui è caduto il razzo russo è ben visibile a pochi metri dall’ingresso, ormai ridotto a un minuscolo portone per ragioni di sicurezza. Alla vigilia di Natale, il 24 dicembre, sono morti in dieci qui davanti. Uccisi mentre cercavano da mangiare: chi nel supermercato, chi nell’angolo di distribuzione di aiuti alimentari dove sono stati feriti due volontari delle Nazioni Unite che hanno denunciato il «raid sulla popolazione». Lo ricordano anche i due chioschi di fiori in frantumi dietro l’angolo di Ushakova Ave, il viale che si conclude sul fiume Dnepr. È dall’altra riva che il missile è stato lanciato, dalla parte della città occupata dai russi. «Se ho paura a tornare al “Cilbo” a fare la spesa? Non ci sono molte alternative. Sono ormai pochissimi i negozi aperti. Perché da qui sono fuggiti tutti », spiega Valerij. Le rughe dicono che ha superato i settant’anni e vive con la moglie.

Il cratere sulla strada a tre settimane dalla strage davanti al supermercato nel centro di Kherson - Gambassi

Kherson è una “tote Stadt”, verrebbe da pensare citando l’opera lirica di Korngold. È una città morta dove si chi muove per strada appare come un fantasma nel deserto delle strade e nel silenzio sepolcrale. In trecentomila vivevano nel capoluogo che dà il nome alla regione dell’Ucraina meridionale affacciata sul mar Nero. Nessun sa di preciso quanti siano rimasti. Il comando militare locale stima non più di ventimila. «Siamo liberi», ripetono i cartelloni gialli voluti dal governo e affissi lungo le strade che dovrebbero essere quelle ad alto scorrimento per il traffico locale ma in cui le auto sono appena un paio all’ora di punta. L’esercito l’ha riconquistata a novembre, chiudendo l’atroce capitolo dell’occupazione durata sette mesi; però è soltanto il fiume a divedere il segmento tornato ucraino da quello ancora in mano alle truppe di Mosca che controllano quasi tutto l’oblast orientale. E così Kherson resta una città nel mirino, «una delle più pericolose del Paese», sostiene Alexander Vylobkov, volontario di Caritas-Spes che da Kiev fa la spola quasi ogni settimana per portare gli aiuti umanitari. Meno di cinque chilometri la separano dalle postazioni nemiche da cui partono in continuazione colpi d’artiglieria che sembrano arrivare dal quartiere limitrofo tanto sono netti e che raccontano l’incubo quotidiano di chi ancora abita la città.

I negozi chiusi o distrutti a Kherson - Gambassi

Di fatto è come se il fronte sia sotto casa. Impossibile avvicinarsi all’acqua dove si può diventare bersaglio di chi spara dall’altra sponda. Anche la parrocchia greco-cattolica dei padri basiliani è stata costretta a trasferirsi lontano dalla banchina ed è pronta a diventare il primo sportello cittadino di Caritas Ucraina. «Da qui ci chiedono solo cibo. Neppure pannolini o prodotti per l’infanzia. Segno che le famiglie con i bambini se ne sono andate e che c’è bisogno soltanto del necessario per sopravvivere», aggiunge Alexander mentre scarica pacchi di farina, confezioni di pasta e sacchi di patate: metà nel grande hub alimentare che sfama gli irriducibili di Kherson; metà nella stazione di polizia perché «ci difendono e sono persone anche loro», chiarisce.

La vita degli irriducibili di Kherson fra le macerie lungo le strade - Gambassi

Oggi i volti di Kherson sono per lo più di anziani che non se la sentono di lasciare i loro appartamenti o di uomini che hanno imposto a mogli e figli di fuggire e si trasformano in vedette di tutto ciò che hanno. «Datemi qualcosa. Non ho più neppure una moneta. Devo mangiare», supplica una donna a quei pochi che da fuori entrano in città. E Alexander le offre un kit di vivere. Intorno al mercato coperto che qualcuno tiene aperto la voragine nella palazzina di una banca, le carcasse delle auto e le macerie che ancora invadono ancora il marciapiede ricordano i bombardamenti più recenti e mostrano come sia inutile ripulire vie dove nessuno, o quasi, passerà.

Le strade deserte nel centro di Kherson - Gambassi

«Questa era l’ospedale in cui mia moglie ha partorito due dei tre figli», indica Aleskey Shurepov. L’edificio è chiuso e le mura nere per il fuoco. Anche lui è un volontario di Caritas-Spes e ha traslocato a Kiev. Le uniche code che si incontrano sono alle stazioni di benzina e alle farmacie: in realtà quelle ancora in funzione si contano in una mano. L’elettricità va e viene può volte al giorno. E anche il riscaldamento delle abitazioni alimentato con il vapore della grande centrale termoelettrica nei dintorni della ferrovia bombardata più volte.

La distruzione lungo la strada fra Kherson e Mykolaiv che è stata per settimane campo di battaglia - Gambassi

I marchi più evidenti della distruzione sono ai lati della lingua d’asfalto sconnesso che porta a Mykolaiv, a settanta chilometri. E’ stata per settimane il campo di battaglia fra i due eserciti. E tutto è raso al suolo: dalle casette di campagna alle pompe di gasolio, da alcuni tratti d’arteria all’aeroporto che i battaglioni di Mosca avevano scelto come deposito per le armi. Adesso Kherson sperimenta sulla sua pelle che cosa significhi la ritorsione russa quando l’invasore si ritira ma resta nei dintorni. E, con le truppe russe così a ridosso, è una città blindata. Presidiata come un bottino di guerra che il Cremlino non dà sicuramente per perso. Gli uomini (e anche le donne) in divisa danno quasi l’impressione che siano più numerosi di chi non l’ha abbandonata.

Il dono di un furgone ai militari di Kherson da parte di un gruppo di rifugiati - Gambassi

Ai piedi del monumento che accoglie i forestieri all’ingresso della città quattro militari ricevono il dono di Andrew Pospelko: un furgoncino amaranto. «L’ho acquistato grazie a una colletta fra gli amici – racconta il giovane –. Vengo da un villaggio poco distante da qui, che è ancora occupato. Adesso sono rifugiato a Odessa. So che può sembrare insignificante un mezzo come questo per i nostri soldati. Ma è un modo per ribadire che li sosteniamo. E, come hanno liberato Kherson, sogno che presto caccino i russi anche dal mio paesino d’origine».