Ucraina. «Così il mio eroe Igor è ritornato a casa, dopo 6 mesi nelle mani dei russi»
Oksana Dubyk con il marito Igor, militare volontario liberato dai russi
Il suo incubo è finito a dicembre. «Ed è il regalo più bello che san Nicola potesse farmi». Perché in Ucraina il santo che unisce Oriente e Occidente è come Babbo Natale e porta i doni nei giorni delle feste. Ha ritrovato il sorriso Oksana Dubyk da quando suo marito è stato liberato. Per oltre sei mesi il «mio Igor», come lo chiama, è rimasto in mano russa. Rinchiuso nel carcere di Olenivka, nella regione di Donetsk, dove erano stati deportati i militari del battaglione Azov, simbolo della resistenza a Mariupol. E sia Oksana sia Igor sono originari della città martire devastata e assediata dalle truppe di Mosca fino a maggio. Proprio quando gli ultimi soldati ucraini si sono arresi, compresi quelli asserragliati nell’acciaieria Azovstal, Igor è stato catturato. «Perché lui è rimasto lì fino alle ultime ore per difendere Mariupol». Militare volontario. «Ed eroe secondo me, nonostante la sofferenza», dice la moglie. «Un dolore – ammette – che forse può essere paragonato soltanto a quello di una madre che aspetta il figlio di cui non ha più notizie e che lotta con tutta se stessa per riaverlo anche quando ogni cosa sembra dirle che si tratta di una speranza vana».
In Oksana la fiammella della speranza non si è mai spenta. «Igor si è arruolato il primo giorno dell’invasione russa. Ed è entrato nella “brigata Mariupol” per proteggere la nostra comunità». Non una scelta presa d’istinto a 59 anni. «Aveva già preso parte nel 2014 ai combattimenti in Donbass. Sono orgogliosa di lui», aggiunge lei. Anche se adesso il marito è in un centro di riabilitazione. «È stato ferito dalle schegge di una granata. Quando l’ho rivisto, dopo la detenzione, pesava appena 46 chili. E dire che è alto un metro e 80 e prima del conflitto era 30 chili di più». Secondo il racconto dell’uomo, i reclusi «non avevano niente da mangiare e venivano maltrattati», spiega Oksana.
Ora lei vive a Leopoli. Sfollata come milioni di ucraini. La sua casa è uno dei prefabbricati collocati nei parchi della città. Ed è riuscita anche ad aprire un negozio di fiori. «Grazie agli amici e alla gente di Mariupol – racconta –. È prima di tutto un modo per impiegare il tempo. E poi noi siamo sempre stati lavoratori». Con la mente torna a un anno fa. «Avevamo una piccola azienda di mobili. Ma la guerra ha sconvolto le nostre esistenze». Lui al fronte. Lei, con i due figli, in fuga. «Prima siamo stati nascosti nei boschi per ripararci dagli attacchi. Cucinavamo con il fuoco. Non avevamo elettricità e rete Internet. Poi, quando la casa è stata bombardata, abbiamo lasciato la città. Ricordo ancora i dodici posti di blocco russi che abbiamo superato con mio padre». Però dietro l’addio a Mariupol non ci sono solo i missili. «La nostra famiglia è sempre stata apertamente filoucraina. Per questo eravamo consapevoli che in un territorio occupato da Mosca le nostre vite sarebbero state in pericolo». Solo a Leopoli ha saputo della sorte di Igor.
«Dopo l’evacuazione del complesso dell’Azovstal mi hanno comunicato che il nemico lo aveva preso. Era il 19 maggio. Una volta catturato, le uniche informazioni che ho avuto di lui sono arrivate dai colleghi». Quelli rilasciati nei ripetuti scambi di prigionieri su cui è intervenuto anche papa Francesco. Come accadrà a Igor. «So che si sta facendo il possibile per i soldati. Ma occorre che tutti i prigionieri dell’acciaieria siano riportati a casa», sostiene la donna. Ancora sono 3.400 gli ucraini che restano nelle celle russe, secondo i dati diffusi dal governo centrale, anche se nei nove mesi di combattimenti 1.596 sono stati rilasciati: 1.434 militari e 132 civili.
La prima immagine del marito di Oksana tornato a vivere è stata una fotografia scattata agli ex detenuti. «Poi mi hanno detto che Igor era già in terra ucraina. E mezz’ora dopo ha squillato il telefono. “Ciao, piccola, eccomi”. Era la sua voce. Non sono mai stata così felice…». Ci sarebbero voluti alcuni giorni prima di rivedersi. In una camera d’ospedale. «Con i miei figli siamo rimasti accanto a lui 48 ore. Abbiamo parlato tutto il tempo. Ancora deve affrontare un intervento chirurgico». E insieme si preparano al Natale ucraino, il 7 gennaio. «Anche la nostra esperienza familiare dice che sarà una festa di guerra. Non so se potrò visitare mio marito. Sicuramente andrò in chiesa per ringraziare il Signore, la Madre di Dio e tutti i santi che mi hanno restituito Igor. E a loro affiderò un mio sogno». Quale? «Tornare a Mariupol. Per ricostruirla con chi l’ha sempre nel cuore».