Modifica della Costituzione, asilo climatico in Australia e digitalizzazione completa del patrimonio
storico e culturale.
Tuvalu, piccolo Stato insulare dell’Oceano Pacifico, si prepara a sparire per sempre inghiottito dal mare che avanza per effetto del riscaldamento globale. Il Paese-arcipelago è grande appena ventisei chilometri quadrati e conta poco più di 11mila abitanti. Secondo uno studio dell’agenzia spaziale statunitense, Nasa, il livello del mare che lo circonda è cresciuto negli ultimi 30 anni di quasi 10 centimetri. Altrettanti ne guadagnerà entro il 2050. Il territorio, in pratica, è destinato a diventare inabitabile nell’immediato futuro e ad affondare definitivamente entro la fine del secolo. Sono anni che il governo, membro di un’
alleanza di staterelli accomunati dallo stesso destino, sollecita la comunità internazionale a fermare il cambiamento climatico che origina lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente innalzamento del livello del mare. Eclatante, lo ricordiamo, fu nel 2021 il discorso che l’allora
ministro degli Esteri, Simon Kofe, tenne per rilanciare alla Cop26 di Glasgow il grido d’aiuto della sua gente: in giacca e cravatta, dietro un leggio con tanto di microfono, ma con i calzoni arrotolati e i piedi a mollo nella rada della capitale Funafuti. L’allarme è risuonato anche all’ultima
Conferenza Onu sul clima, quella tenuta a Dubai all’inizio del mese, per mezzo del primo ministro, Kausea Natano, che ha parlato dell’avanzata dell’oceano come di una “minaccia esistenziale”. Diverse sono le iniziative intraprese per cercare di adattare la vita degli isolani alla scomparsa della terraferma, un paradiso tropicale che sperano di poter continuare ad abitare il più a lungo possibile. Ma la prospettiva a lungo
termine non è incoraggiante. Le autorità hanno per questo deciso di prepararsi al peggio. A settembre scorso si è concluso il percorso legislativo che ha portato a una modifica della Costituzione emendata a precisare che la nazione continuerà ad essere uno Stato anche se non avrà più terra, ma solo mare, su cui esercitare la propria sovranità. Due mesi dopo, il premier Natalo ha siglato con
Anthony Albanese, titolare dell’esecutivo australiano, l’intesa Falepili (parola tuvaluana che indica il buon vicinato) che impegna Canberra ad accogliere ogni anno 280 sfollati climatici da Tuvalu. Tutta la popolazione dell’arcipelago potrebbe, in teoria, essere ricollocata in neppure 40 anni. L’accordo contempla profili politici non secondari perché, primo, riconosce all’Australia il diritto di veto sulle alleanze che lo staterello del Pacifico vorrà stringere con altri Paesi in ambito sicurezza e, secondo, concede l’accesso di militari australiani all’isola in caso di necessità. Paletti posti a contenere
l’espansione della Cina nel Pacifico meridionale.
L’intesa è unica nel suo genere. Ma non convince tutti. L’Australia è infatti uno dei più grandi esportatori di combustibili fossili al mondo. Come tutti i Paesi sviluppati, inoltre, è parte del “club” dei grandi che producono la maggiore quantità di emissioni fossili a danno delle nazioni non industrializzate che, proprio come Tuvalu, subiscono gravemente gli effetti del
cambiamento climatico. A Funafuti si lavora, intanto, già da un anno a un progetto nato per creare una copia del Paese nel metaverso. Una riproduzione digitale di spiagge, villaggi, edifici e siti storici accessibile attraverso la realtà aumentata a quanti vorranno conoscere Tuvalu, i suoi abitanti e la loro cultura anche quando l’arcipelago sarà scivolato negli abissi.