Mondo

Gli assassinati. Tutti testimoni della convivenza: il loro sacrificio nel nome del pluralismo

STEFANO VECCHIA mercoledì 11 maggio 2016
Hanno incarnato con le loro vite – fino al sacrificio estremo – la possibilità di una via diversa, alternativa, praticabile di convivenza e di pace in un Paese nel quale il groviglio di modernità e violenza atavica appare, a volte, inestricabile. È la strada dei «martiri». Individui con alle esperienze e origini diverse e che hanno vissuto con coerenza e pagato con la vita. Per molti la capostipite è Benazir Bhutto, il cui padre – pur tra le contraddizioni che poi furono anche parte del vissuto della figlia – aveva indicato al Paese una strada di partecipazione e di democratizzazione che non a caso venne interrotta con la sua impiccagione e molti anni di dittatura militare. Dopo varie esperienze di governo e di esilio, la morte di Benazir Bhutto a 54 anni, vittima di un attentato devastante il 27 dicembre 2007 a Rawalpindi, impedì a lei e al suo Partito del Popolo pachistano, di riprendere il potere, ma la sua eredità, che è anche di emancipazione femminile è proseguita e non a caso, proprio del suo partito sono stati esponenti di rilievo due vittime della violenza estremista di matrice religiosa. Pochi giorni dopo avere incontrato nel carcere di Sheikhupura la cattolica Asia Bibi, condannata nel novembre 2010 alla pena capitale e ancor oggi in attesa della sentenza finale della Corte suprema, il 4 gennaio 2011 il governatore della provincia del Punjab, Salman Taseer, musulmano, veniva assassinato a Islamabad da una sua guardia del corpo vicina al movimento taleban. Non un obiettivo casuale, ovviamente, e non solo per l’impegno a favore della cattolica accusata pretestuosamente di blasfemia, ma anche per l’intenzione di cercare la modifica della legge che è diventata centrale nella situazione di incertezza e di paura delle minoranze, come pure dei musulmani non allineati con le tesi e le azioni degli estremisti.  Un omicidio, quello di Taseer, che doveva precedere di soli due mesi quello altrettanto violento e altrettanto simbolico di Shahbaz Bhatti, primo ministro per le Minoranze religiose del Paese. Un cattolico mite ma coraggioso che aveva accolto per fede ma anche per convincimento politico il peso di una carica che lo portava in rotta di collisione con la politica che cerca il sostegno dei radicali islamici e, ancor più, con i militanti armati.   Contrariamente forse alle attese degli islamisti, queste morti non hanno però relegato il Paese nella paura, ma hanno incentivato anzi – anche per la loro visibilità e per la reazione internazionale – una resistenza verso un settarismo che ha tanti motivi ed è sostenuto da tanti interessi ma che ha come vittima prima il Pakistan, nato per offrire una “casa” ai musulmani dell’India dopo la separazione nel 1947 ma che sembra incapace di liberare maggioranza islamica e minoranze dal ricatto della violenza.