Pistacchi a perdita d’occhio. «Qui prima era tutto sott’acqua » , dice Necati, il giovane curdo alla guida dell’auto che sta attraversando questa zona a un centinaio di chilometri da Sanliurfa. Qui sorge la diga di Birecik, costruita sull’Eufrate fra il 1985 e il 2000 nell’ambito del controverso progetto Gap ( Progetto per l’Anatolia Sudorientale). Ora sott’acqua ci sono diversi villaggi, come quello di Savashan, che resta indimenticabile con il suo minareto che sembra spuntare dal nulla, nel bacino creato dallo sbarramento. Più in là, impressionante nella sua imponenza, si erge un’altra diga, quella di Ataturk. Un progetto co- lossale costato più di un miliardo di dollari, una delle dighe più grandi del mondo, in grado di produrre – secondo le cifre ufficiali – 8.900 GigaWatt ora all’anno. Ma anche il principale pomo della discordia con i Paesi vicini. Con il Gap infatti la Turchia si impadronisce di fatto dei rubinetti del Tigri e dell’Eufrate, le due principali risorse idriche di Siria e Iraq. Una situazione che innervosisce i vicini, che accusano costantemente Ankara di non rilasciare abbastanza acqua, e mette nelle mani della Turchia un immenso potere. Un potere non virtuale, ma già concretamente esercitato, proprio in occasione dell’inaugurazione della diga di Ataturk: nel gennaio 1990, la Turchia interruppe il corso dell’Eufrate. Ufficialmente, per riempire il lago di fronte allo sbarramento; in realtà, si trattava di una dimostrazione di quel che sarebbe potuto accadere se la Siria avesse continuato a fornire supporto al Pkk, il gruppo armato separatista curdo. Le conseguenze non furono però quelle sperate: poiché anche l’Iraq si ritrovò improvvisamente a corto d’acqua, si creò un’inedita alleanza fra Baghdad e Damasco, fino a quel momento nemici giurati. Fu così che la Turchia fu costretta a fare un passo indietro, e l’Eufrate, che nei piani di Ankara doveva lasciare a secco i vicini per un mese, tornò a scorrere nelle pianure della Mesopotamia con una settimana d’anticipo. Il problema però resta. Al Forum mondiale di Istanbul sia il ministro dell’ambiente Veysel Eroglu sia il presidente della Repubblica Abdullah Gul hanno insistito sulla carenza di risorse idriche in Turchia, contrariamente a quanto si potrebbe credere. In realtà tutto il Medio Oriente ha sete, tanto che Israele compra acqua proprio dalla Turchia. E che a provocare le guerre delle futuro sarà l’ « oro blu » è una facile profezia, suffragata da quanto dichiarato da più di un leader turco fin dalla fine degli anni Ottanta: loro – cioè gli arabi – hanno il petrolio, noi abbiamo l’acqua. In questo braccio di ferro, Ankara, accusata di voler tenere sotto scacco i Paesi vicini con le dighe, si difende con le cifre: i 500 metri cubi al secondo promessi sono sempre stati forniti. Ma i siriani non si lamentano della quantità, ma della qualità: l’acqua che arriva a casa loro, passando dalle dighe, è stata già usata più volte per irrigare i campi, con un aumento della salinità che danneggia i raccolti, mentre, privata del limo, scorre più rapidamente provocando erosioni. La questione delle dighe ha poi ricadute ambientali, sociali ed economiche enormi. Al Forum mondiale se ne è appena accennato, e solo per esaltarne la funzione di sviluppo per le regioni coinvolte. Una funzione su cui molti ormai si pongono domande, soprattutto nei confronti del più contestato dei progetti del Gap, la diga di Ilisu, quella che provocherebbe l’allagamento del sito archeologico di Hasankeyf. Diversi investitori stranieri hanno già ritirato i finanziamenti. Ma il governo italiano continua a crederci. E così ha invitato, per il 21 aprile a Milano, il vicepremier turco Nazim Ekrem per una presentazione del progetto Gap alle aziende di casa nostra.