Turchia. Erdogan «superpresidente» a tutti i costi a 7 giorni dal voto
Manca una settimana a un referendum che potrebbe cambiare la storia della Turchia per sempre e il popolo della Mezzaluna si prepara ad andare al voto fra sondaggi incerti, attacchi del presidente Recep Tayyip Erdogan all’Unione Europea e una Mezzaluna sempre più intenzionata a sfruttare il momento politico e muovere guerra all’ex alleato siriano Bashar al-Assad, anche a costo di cambiare in corsa appoggi e di abbandonare l’asse con Vladimir Putin in favore di uno, ancora ipotetico al momento, con Donald Trump.
Il prossimo 16 aprile si voterà per decidere se cambiare o meno la forma di governo e passare da una Repubblica parlamentare a una Repubblica presidenziale. Se vincerà il «sì», allora scomparirà la figura del primo ministro e il capo dello Stato verrà investito di super poteri. Al presidente spetterà la nomina dei ministri, che potrà sostituire durante il loro mandato a suo piacimento, e quella dei dirigenti delle grandi istituzioni pubbliche. Il Parlamento perderà gran parte delle sue funzioni, non potrà opporsi alle decisioni del presidente della Repubblica e scompariranno anche le interrogazioni, che potranno essere presentate solo per iscritto e solo dai capigruppo dei partiti in parlamento.
Anche la magistratura perderà quello che è rimasto della sua indipendenza (dopo essere passata attraverso le gigantesche “purghe” seguite al presunto golpe di metà luglio, se si conta che cambieranno i criteri di nomina dello Hysk, il Csm turco e della Anayasa Makhemesi, la Corte Costituzionale della Mezzaluna. In ultimo, se passa la riforma, il presidente in carica potrà cercare di farsi rieleggere fino al 2029.
Un testo tagliato su misura per Recep Tayyip Erdogan, che coltiva il sogno presidenziale da anni e che per arrivare a questo referendum, durante l’approvazione della bozza in Parlamento, ha trovato la sponda del Partito Nazionalista, il Mhp, che ha posto come unica condizione l’eliminazione dei curdi e delle loro richieste dalla bozza. Contrari al referendum, c’è ovviamente la minoranza curda, che così perde un’occasione importante per vedere riconosciuti i diritti etnici e linguistici che richiede da anni e il Chp, il Partito repubblicano del popolo, principale voce della debole opposizione turca e che parla di strada spianata verso la dittatura nel caso in cui il sì vinca alle urne. Dopo settimane in cui il «no» alla riforma sembrava saldamente avanti nei sondaggi, adesso le società di ricerca più autorevoli danno i due schieramenti fermi al 40%, con un 20% di indecisi. Un testa a testa, con una guerra all’ultimo voto nella quale Erdogan, per vincere, si sta avvalendo soprattutto di tre armi.
La prima è la guerra interna al terrorismo, dove ha accusato i sostenitori del «no» e chi intende votarlo di essere seguaci di Fethullah Gülen, l’ex imam un tempo alleato del presidente e ora suo maggiore nemico, che vive in autoesilio negli Usa e che è accusato di essere dietro al golpe fallito del luglio 2016, o del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, organizzazione terrorista e separatista che lotta per la creazione di uno Stato indipendente.
La seconda è la componente anti-europea e anti-occidentale, che si è rafforzata dopo le polemiche sui comizi negati in Germania e in Olanda e che ha determinato il balzo in avanti del presidente della Repubblica nei sondaggi degli ultimi giorni. Erdogan lo ha capito e ha rincarato la dose, accompagnando alle accuse di fascismo e nazismo, anche quella di avere «un atteggiamento da nuovi crociati».
Negli ultimi giorni, ha poi ripreso piede anche la guerra al presidente Bashar al-Assad, soprattutto dopo l’attacco chimico le cui immagini hanno sconvolto l’opinione pubblica della Mezzaluna e il bombardamento americano a Homs. A innalzare ancor più la temperatura della campagna elettorale, ha contribuito il Daesh che ha esortato i propri fedelissimi ad attaccare tutti i seggi. La minaccia è stata pubblicata su Rumiyah, la rivista ufficiale del Califfato.
Il clima interno nel Paese è teso come non si era mai visto. La posta in gioco ha portato a una polarizzazione negli schieramenti che spesso è sfociata in aggressioni da entrambe le parti, ma dove i sostenitori del sì possono contare non solo su una stampa pressoché completamente allineata, ma anche sull’Autorità per gli Affari Religiosi, la Diyanet, che in questa campagna referendaria si è spesa con grandi forze per orientare il voto dei fedeli. In parlamento sono arrivate numerose denunce di sermoni tenuti nelle moschee a favore del sì. Il presidente della Repubblica ha promesso, in caso di vittoria, di fare «piazza pulita di tutti i terroristi», facendo chiaramente capire che questa volta se la prenderà con solo con i parlamentari curdi, 13 dei quali sono in carcere, ma anche con quelli di altri schieramenti. A rischiare secondo gli analisti ci sono anche quelli che, nel suo partito erano contrari alla riforma.