NEWYORK Donald Trump, che fino a quattro anni fa non possedeva una tessera del partito repubblicano, è da ieri di fatto il candidato del partito conservatore americano alla Casa Bianca. Dieci mesi dopo essere sceso nell’arena politica dai gradini di una scala mobile della Trump Tower ed essere stato liquidato da analisti e giornalisti come un pacchiano megalomane, il miliardario ha vinto. Come non si era mai stancato di ripetere. Il successo schiacciante di martedì in Indiana, dove ha seminato il più vicino rivale di quasi venti punti percentuali, gli ha permesso di mettere a segno il colpo finale: buttare fuori dalla gara gli ultimi due contendenti dei 16 con i quali era partito a gennaio per la marcia delle primarie. Ted Cruz, l’ultraconservatore senatore del Texas che aveva sperato di cavalcare il malcontento del partito per una nomination del tycoon, è stato il primo dei due a gettare la spugna. Il Grand Old Party (Gop) che Cruz voleva salvare dall’abbraccio di Trump alla fine non ha voluto farsi soccorrere, considerando il senatore un’alternativa peggiore, ancora più odiata in Congresso, del re del mattone (l’ex speaker del Senato, John Boehner ha chiamato Cruz «Lucifero in car- ne e ossa»). Il moderato governatore dell’Ohio, John Kasich, l’unico aspirante presidente del Gop ad abbracciare posizioni di centro, ha mollato ieri. La prospettiva di una convention “contestata” è dunque sfumata. Nel giro di un mese al massimo, dopo che l’ultima mezza dozzina di Stati si saranno recati alle urne, i numeri confermeranno quello che ieri era scontato: Trump arriverà alla convention di Cleveland con la nomination in tasca, pronto per l’investitura del partito di Reagan. Come molti osservatori facevano notare ieri, è stata una stagione elettorale a dir poco insolita, che ha portato al trionfo un candidato inusuale. Trump è il primo “nominee” a non aver mai rivestito un incarico politico (a parte Dwight Eisenhower, il generale che ha condotto alla vittoria le forze alleate durante la seconda guerra mondiale). Il primo ad essere una star di un programma reality, ad aver partecipato a un incontro di wrestling, ad essersi sposato tre volte, a possedere una catena di casinò, una compagnia aerea e un’agenzia per modelle, oltre a una marca di bistecche che porta il suo nome. Ma soffermarsi su questi attributi (così come sulla sua ossessione per la propria “mascolinità”) potrebbe portare a sottovalutare Donald Trump, un errore del quale è oggi di moda discolparsi pubblicamente. Lo hanno fatto una decina di grandi firme della stampa Usa, una dozzina di sondaggisti, le alte sfere del partito repubblicano, e soprattutto gli altri candidati repubblicani che, col senno del poi, si rimproverano di non avere messo in luce le contraddizioni di Trump fin dall’inizio, sprecando i loro attacchi per gli altri avversari del gruppo. I vari Jeb Bush e Marco Rubio si sono rivelati troppo timidi per un rivale che non ha mai risparmiato colpi bassi e accuse così assurde da spiazzarli. Se c’è qualcuno determinato a non commettere lo stesso errore è Hillary Rodham Clinton. «Sono veramente concentrata sull’elezione generale – ha detto ieri l’ex first lady – perché avremo una campagna difficile contro un avversario che farà e dirà di tutto per vincere ». Clinton ha perso martedì in Indiana, ma il risultato, grazie alla distribuzione proporzionale dei delegati, non scalfisce il suo imprendibile vantaggio nei confronti di Bernie Sanders. Anche fra i democratici, dunque, i giochi sono praticamente fatti. Ma la persistenza di un rivale in campo impedisce all’ex segretario di Stato di dedicare ogni risorsa alla competizione di novembre. Se finora Clinton è stata attenta a non fare pressione sul senatore del Vermont affinché si faccia da parte, nel timore di attirarsi le ire dei suoi sostenitori, c’è da aspettarsi ora che gli appelli si faranno incalzanti. Concedere al proprio rivale un mese di vantaggio nell’organizzazione della squadra per il duello finale non è una concessione che l’agguerrita Hillary è disposta a fare. Certo, Clinton può contare su un solido margine nelle indagini d’opinione. A seconda dei sondaggi, è in testa su Trump del sette, dieci per cento (solo uno vede Trump in testa del due). Ma sette mesi fa Jeb Bush seminava il miliardario di 12 punti percentuali. Hillary non l’ha dimenticato.
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