Usa-Messico. La Corte Suprema sblocca due miliardi e mezzo per il «muro di Trump»
Il “muro di Trump” prende forma. La barriera totale anti-immigrati al confine tra Stati Uniti e Messico – promessa tuttora incompiuta della campagna del 2016 – ha ricevuto un inatteso puntello dalla Corte Suprema. Il massimo tribunale ha autorizzato l’Amministrazione a impiegare 2,5 miliardi di dollari, prima assegnati al programma anti-droga del Pentagono, per la sua costruzione. O, meglio, per la costruzione di un tratto di 160,9 chilometri.
Su questo pezzo di muro, la politica Usa è incagliata da gennaio. Allora, l’intento presidenziale di ottenere i fondi dal Congresso aveva provocato 35 giorni di paralisi amministrativa, la più lunga della storia. Per uscire dall’empasse, 15 febbraio, il capo della Casa Bianca ha invocato l’emergenza nazionale in modo da bypassare il potere legislativo e dirottare sulla barriera i finanziamenti per il dipartimento di Difesa. La manovra è stata, però, bloccata dal ricorso dell’associazione per i diritti civili (Aclu), il gruppo ambientalista Sierra club e la Coalizione di comunità della frontiera sud, accettato da un giudice di Oakland.
A quel punto, il governo s’è rivolto alla Corte Suprema che, venerdì notte, gli ha dato ragione. «Una grande vittoria», ha esultato Trump su Twitter. In realtà, con l’emergenza nazionale, il presidente puntava a disporre di 6 miliardi di dollari. Ne ha ottenuto, per ora, poco più di un terzo.
Per blindare l’intera frontiera meridionale degli States, però, ci vogliono almeno 21 miliardi. Non è solo un problema di costi. Il confine è frastagliato: canyon e deserti lo spezzano rendendo complicatissimo il passaggio di una barriera. Di fatto, dove è possibile – per circa un terzo del totale –, il muro è stato già innalzato dai predecessori di Trump. Quest’ultimo sa, dunque, che sarà difficile avere qualcosa di tangibile da mostrare agli elettori durante la campagna per la prossima corsa alla Casa Bianca. Per tale ragione, il presidente s’è premunito di fabbricare – stavolta sì con maggiore successo – un muro legale che faccia da argine al flusso migratorio.
Poche ore prima del verdetto della Corte, la Casa Bianca ha convinto il Guatemala ad accettare lo status di “Paese terzo sicuro” per i richiedenti asilo salvadoregni e honduregni. A partire da agosto, dunque, questi saranno inviati dagli Usa in territorio guatemalteco, considerato idoneo a garantire i loro diritti. La decisione ha provocato forte opposizione nel Paese centroamericano, terra d’esodo di centinaia di migliaia di profughi. Anche i vescovi avevano sottolineato il paradosso. Alla fine, due settimane fa, la Corte costituzionale nazionale aveva bloccato l’iniziativa. Oltretutto, l’assunzione dello status di “nazione sicura” richiederebbe un via libera parlamentare che non c’è stato. Per aggirare lo scoglio, il presidente guatemalteco Jimmy Morales ha evitato di menzionare il termine specifico. Il contenuto dell’accordo, però, è chiaro, al di là delle sottigliezze semantiche.
Trump aveva già cercato di attribuire tale status al Messico, a maggio, minacciando l’imposizione di dazi sulle esportazioni. Il governo di Andrés Manuel López Obrador è riuscito ad evitarlo. Anche se, per blandire Washington, ha dovuto accettare di accogliere i richiedenti asilo negli Usa fino alla decisione dei tribunali.
E di trasformarsi nel “gendarme” del vicino, impedendo i migranti di raggiungere il confine Usa. Gli arrivi sono, in effetti, diminuiti del 33 per cento. Un buon risultato per Trump, non sufficiente, però, per trasformare il “muro” nel perno della campagna per la rielezione. Il capo della Casa Bianca, dunque, ci ha riprovato con il Guatemala, impiegando lo stesso metodo: minaccia di dazi sulle merci importate e di tasse sulle rimesse. E, stavolta, la manovra è andata in porto.