No man's Land. Dove c’era il Triangolo d’oro ora c’è un buco nero dell’illegalità
La sfilata ad uso dei media, prima dell’udienza a Yangon, di un gruppo di trafficanti di esseri umani che trasportavano profughi Rohingya
Dove una volta c’era il Triangolo d’Oro, c’è oggi un buco nero che ingoia risorse, diritti, vite e dignità di migliaia e migliaia di individui e che in cambio produce veleni, inquinamento, sopraffazione e paura per molti, benessere e potere per pochi. Strategica oggi come un tempo, quella che era considerata un’area nel cuore dell’Asia esotica per ambiente, etnie e mescolanza di culture, strategica per il confronto tra i nazionalisti cinesi che qui impiantarono una guerriglia alimentata da eroina e armi di contrabbando e i comunisti di Pechino, oggi è hub internazionale di gioco d’azzardo, traffici di ogni genere e reati informatici che mietono milioni di vittime a partire dalla Repubblica popolare cinese da cui provengono i maggiori investitori e gestori di attività criminali verso le quali Pechino misura attentamente ritorsioni e distrazione in funzione dei suoi interessi e strategie che coinvolgono Laos, Cambogia, Thailandia, e soprattutto, Myanmar.
Quest’ultima in particolare ha da tempo attirato l’attenzione di reti transnazionali dedite ad attività illecite, inclusa la tratta di esseri umani. A partire da quella responsabile della sorte di migliaia di Rohingya in fuga dalla violenza dei militari in buona parte rifugiati senza prospettive in Bangladesh ma non rassegnati alla vita nei campi. Per l’Alto commissariato Onu per i rifugiati su 4.500 che lo scorso anno hanno lasciato il Bangladesh o il Myanmar rischiando la traversata via mare del Golfo del Bengala sarebbero 569 i morti accertati. Il numero più alto in un solo anno dopo il 2014. Le storie dei sopravvissuti raccontano non soltanto delle tempeste e della sete ma anche dei trafficanti e delle violenze subite, soprattutto da donne e bambini che sono i due terzi dei partenti.
Come per lo sfruttamento dei Rohingya, l’estensione dei profitti connessi con la produzione e il commercio di sostanze stupefacenti, ma sempre più anche di casinò illegali e frodi di ogni genere e livello sembra inarrestabile. Se le stime più attuali indicano in 60-70 miliardi all’anno il valore delle sole metanfetamine usate localmente o esportate e se qui l’oppio ha recuperato lo scorso il primato mondiale, si teme che quello dell’utilizzo fraudolento di Internet possa presto superarlo, con una serie di altre attività – a partire dagli scambi clandestini di criptovalute e sistemi finanziari paralleli – che vanno a loro volta imponendosi anche come strumenti per il riciclaggio di denaro e garantiscono enormi profitti a gruppi armati e organizzazioni criminali.
In Myanmar, 55 milioni di abitanti, che dall’indipendenza è vissuto nello sbando della legalità, perlopiù sottoposto a dittature brutali e con un costante confronto tra gruppi di potere, etnie e interessi internazionali sul suo territorio, tutto questo si è evoluto in un sistema parallelo a quello statale, a sua volta minato da corruzione, repressione e violazioni dei diritti umani. Non è un caso se il valore delle sole truffe informatiche gestite alla frontiera settentrionale dello Stato Shan prossima al confine cinese è oggi calcolato in 14 miliardi di dollari. Il fatto che attività le cui dimensioni vanno svelandosi anche grazie all’avanzata sul terreno delle milizie etniche che si confrontano con i militari del regime sia gestito da quattro clan di origine cinese sotto la tutela finora delle forze armate birmane fa capire la posta in gioco, sia nel tentativo dei militari di soggiogare il Paese, sia in quello dei gruppi etnici di liberarsi da questo giogo e gestire autonomamente le risorse locali sia, infine, il ruolo della Repubblica popolare cinese nel controllare possibilità e collocamento internazionale di questo sfortunato Paese. Lo scorso anno le autorità di un regime non riconosciuto se non da alleati storici della dittatura, Cina, Russia e Corea del Nord anzitutto, hanno rimpatriato 41mila individui coinvolti spesso con coercizione nelle varie forme di criminalità informatica a cui oltreconfine ha corrisposto una repressione che ha portato all’arresto di oltre 70mila persone come parte di una campagna per liberare la Cina da questa nuova piaga. Le voci della resistenza danno però per certo il salvataggio con elicotteri militari dei capi delle gang cinesi alla caduta di Laukkai, finora l’abitato principale conquistato dai ailiziani dell’Esercito dell’Alleanza democratica nazionale e “capitale” delle frodi informatiche e dell’azzardo via Internet del Sud-Est asiatico.
Uno degli obiettivi dichiarati dell’Offensiva 1027, così chiamata perché avviata il 27 ottobre, era proprio di chiudere la partita con attività che la giunta guidata dal generale Min Aung Hlain ha favorito tra le molte illegali di cui beneficia e con cui alimenta la repressione finendo però per collidere con Pechino riguardo le iniziative criminali che prendono di mira cittadini e interessi cinesi e per il timore che le attività belliche aprano a un flusso di profughi verso il territorio cinese. Una situazione che chiarisce, attualizzandola, come in Myanmar abbiano giocato finora pesi e contrappesi che hanno perpetuato instabilità e illegalità da cui molti traggono vantaggio. A sollecitare la nuova presa di potere delle forze armate il primo febbraio 2021 dopo un decennio di precaria democrazia guidata dalla Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi è stata la paura che il Parlamento uscito dalle elezioni del novembre precedente potesse avviare un processo di revisione della Costituzione che avrebbe tolto ai militari il diritto di veto su ogni iniziativa politica.
Una possibilità che li avrebbe privati di ampi benefici economici nella gestione di frontiere, energia e miniere, ma che avrebbe anche aperto le porte dei tribunali e del carcere per i gestori di mezzo secolo di dittatura vissuta nella sostanziale impunità internazionale. Il golpe di tre anni fa non ha avuto alcuna condanna dai governi tradizionalmente vicini ai militari che in sede Onu hanno continuato a opporre veti a condanne e sanzioni riattivando il flusso di armi per la repressione e quello contrario di narcodollari e risorse naturali, mentre altri sono rimasti neutrali nel confitto che dal golpe è derivato.
I due attori principali, militari e movimento democratico con il ruolo centrale della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi, sono tuttavia solo due di quelli in scena nel Paese. Soprattutto nelle aree frontaliere che hanno subito la ridefinizione dei confini internazionali alla fine del controllo britannico nel 1948 il contrasto storico tra maggioranza birmana (di etnia bamar) e le consistenti minoranze che costituiscono nel complesso un terzo della popolazione del Myanmar è sempre stato vissuta sui piani dell’identità e del controllo di ingenti risorse: dalle acque per la produzione idroelettrica alle foreste, dalle pietre preziose all’oppio e alle droghe sintetiche. Le divisioni interne alle etnie che spesso si sono dotate di proprie milizie in funzione di autonomia dai birmani ma anche di potere tra fazioni e leader propri, sono state una costante.
Così, in uno dei Paesi dell’Asia con il maggiore potenziale di crescita e progresso, coinvolto in una guerra civile al momento senza sbocchi, le previsioni segnalano per quest’anno un Pil di 65 miliardi di dollari e quasi tutti gli indicatori economici e sociali in calo. Oppio, pietre preziose e lo sfruttamento delle aree oscure di Internet continueranno a garantire enormi profitti; il controllo delle risorse ad alimentare divisione e sofferenza.
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