Medio Oriente. In Libano la tregua per ora tiene
Tanti sfollati da Beirut si sono messi in auto nell'intento di tornare al sud
La speranza è che ora tocchi a Gaza. E che la convergenza di interessi che ha reso possibile la tregua in Libano, ormai in vigore, si ricrei per la Striscia. L’interesse dell’amministrazione americana di Biden a non consegnare al presidente eletto Trump il merito di aver posto fine alla guerra. L’interesse del governo di Netanyahu a rimettere a tema la sorte degli ostaggi, in una fase di esasperazione dell’opinione pubblica israeliana e di logoramento delle Forze di difesa. E l’interesse dei numerosi attori internazionali che puntano a intestarsi un ruolo da mediatori per candidarsi a coprotagonisti della futura scena politica mediorientale. Per non parlare di Hamas, decimata militarmente e ora priva della spalla di Hezbollah, e già da luglio pronta a firmare la proposta di Biden. Il presidente americano uscente ha scritto su X: «Nei prossimi giorni gli Usa faranno un altro tentativo insieme a Turchia, Egitto, Qatar, Israele e altri per ottenere un cessate il fuoco a Gaza, con il rilascio degli ostaggi e la fine della guerra senza Hamas al potere». Da Tel Aviv, il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato che «l’obiettivo morale più importante» per il quale il governo intende «fare tutti gli sforzi necessari» è quello di «creare le condizioni per un nuovo scambio di ostaggi e riportare tutti a casa». Il Qatar si è detto disposto a tornare a mediare. Stessa profferta dalla Turchia di Erdogan: «Siamo pronti a contribuire per fermare il massacro a Gaza».
A Tel Aviv è sbarcata una delegazione di intelligence dal Cairo. Con il beneplacito degli Usa, l’Egitto di al-Sisi starebbe lavorando per chiudere al più presto l’intesa. Da Ramallah, l’Autorità nazionale palestinese ha auspicato che la tregua in Libano «contribuisca a fermare la violenza e l’instabilità di cui soffre la regione». Dietro le quinte, si muovono i sauditi. Il cessate il fuoco a Gaza è la condizione preliminare per riaprire il dossier del reciproco riconoscimento con Israele, quell’adesione agli Accordi di Abramo congelata da Riad all’indomani del 7 ottobre. A Gerusalemme, i familiari dei 101 ostaggi vivi o morti ancora nella Striscia hanno inscenato un sit-in davanti all’ufficio di Netanyahu: «Fate l’accordo di tregua come con il Libano». Poco prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco, l’esercito israeliano ha sferrato un micidiale attacco nel Nord del Libano. Channel 12 riferisce di cento bombe, molte delle quali anti-bunker, che hanno polverizzato una fabbrica segretissima di missili terra-aria. L’esercito informa di avere colpito «decine di centri di comando, lanciatori, depositi di armi e siti di infrastrutture terroristiche di Hezbollah a Beirut, Tiro e Nabatiyeh». Bersagliati anche tre valichi di frontiera con la Siria, attraverso i quali transiterebbero rifornimenti militari a Hezbollah. L’agenzia di Stato siriana parla di quattro civili e due militari uccisi nella provincia di Homs: 12 i feriti, fra cui donne, bambini e operatori della Mezzaluna Rossa.
Nel Sud del Libano, alcuni sfollati hanno provato a fare ritorno. Incentivati dalle parole del presidente del Parlamento, Nabih Berri, che ha trattato per conto di Hezbollah: «Tornate orgogliosi ai vostri villaggi». L’accordo però prevede che il rientro avvenga solo dopo il ritiro degli israeliani, che sarà graduale nei prossimi due mesi. Per almeno due volte, a Kafr Kila e a Adaysse, le Forze di difesa dello Stato ebraico hanno aperto il fuoco contro sospetti. E hanno decretato il coprifuoco, dalle 17 alle 7, in tutta l’area a sud del fiume Litani, oltre il quale dovranno ritirarsi i miliziani. Al tempo stesso, l’esercito libanese ha cominciato a dispiegarsi al sud. Nel frattempo, Hezbollah ha proclamato, rilanciandoli su tutti i canali ufficiali del gruppo, la «sua vittoria sul regime sionista». Nella complessa tessitura della tela diplomatica s’inseriscono le reazioni alla richiesta d’arresto della Corte penale internazionale nei confronti di Netanyahu. Parigi, garante con Washington dell’accordo sul Libano, si appella a «immunità» previste dal diritto internazionale per «gli Stati che non fanno parte della Corte penale» quali Israele. Adempiendo a una precisa condizione posta da Tel Aviv per coinvolgerla nell’intesa, scrivono media israeliani.