Corno d’Africa tenuto in ginocchio dalla peggiore carestia degli ultimi anni. Un’altra, come molte nel passato. Nulla di nuovo sotto il cielo: mentre le nostre coscienze si risvegliano quando ci capita sotto gli occhi la foto di un bambino moribondo?«È vero che le siccità sono ricorrenti. Ma è altrettanto vero che questa volta l’intensità della crisi è molto forte perché va collegata alla situazione di destabilizzazione somala, che ne ha fatto da moltiplicatore. Se pensiamo poi che i punti più forti della carestia sono nella Somalia del centro sud, l’area dove c’è più instabilità e più difficoltà a intervenire, e in Etiopia, nell’Ogaden dove da anni imperversa la guerriglia, l’intreccio di queste due dimensione offrono il carattere devastante della situazione. E poi, ovviamente, questa crisi va a riflettersi anche sui Paesi limitrofi. Il Kenya, per esempio, è in grosse difficoltà. Nairobi ha deciso che per tre ore al giorno l’energia elettrica, ricavata da centrali idroelettriche, viene sospesa, ora anche nelle aree della costa. Se poi su questa realtà vanno a premere 300mila somali profughi, è ovvio che il peso della crisi peggiora e tutto si complica».Risponde così Mario Raffaelli presidente Amref-Italia (African Medical and Research Foundation), dopo essere stato mediatore italiano per la pace in Mozambico, presidente della Conferenza di pace per il Nagorno-Karabak e inviato straordinario del governo italiano per la Somalia.
Ma la siccità e di conseguenza una carestia non sono fenomeni che accadono di sorpresa: cos’è che non si è riusciti a fare per prevenire questa ferita che diventa mortale per milioni di esseri umani?In questi Paesi non è che non è stato fatto o non si faccia qualcosa. Esistono problemi legati al deterioramento del suolo e alla deforestazione. Ricordo altre siccità, quando ero in Kenya, che venivano gestite con difficoltà, ma gestite. Qui si aggrava proprio per la connessione con la crisi in Somalia. Dove è difficile intervenire.
Un inferno dove non è possibile portare un minimo di organizzazione?Al di là di quel po’ di aerei che riescono a atterrare a Mogadiscio. Intanto che stiamo assistendo a un fenomeno di rientro di molta gente perché sperano che Mogadiscio diventi il punto dove arriveranno gli aiuti. Poi c’è la questione delle aere controllate dagli Shabaab e qui si apre il problema. C’è chi sostiene che bisogna trattare con loro. Anche se la posizione ufficiale degli Shabaab è di rifiuto delle agenzie umanitarie. Atteggiamento che però varia a seconda dei comandanti militari. C’è chi sostiene, e io sono fra questi, che bisogna contrattare, zona per zona, le condizioni per fare arrivare gli aiuti anche dove ci sono gli Shabaab. Perché, senza particolari pubblicità, ci sono già dei comandanti che lo permettono.
Previsioni nefaste, su questa carestia del 2011?L’area coinvolta è vasta: Somalia, Kenya, Etiopia, Sud Sudan, Uganda. Seppure il rischio più grosso rimane la Somalia: se non ci sarà un intervento di un certo rilievo, anche se a settembre e ottobre tornassero le piogge, la situazione è talmente deteriorata che anche l’arrivo della pioggia non cambia la situazione. C’è bisogno di strategia regionale, ma finora la risposta delle Nazione Unite mi sembra più fatta di dibattiti che non di azioni sul terreno. Ci vogliono fatti.
Sul terreno, chi si tira su le maniche sono le Ong, i missionari, le Chiese.Fondamentale l’intervento della società civile, perché mobilita le risorse più in fretta e perché le impiega più in fretta essendo già presente sul campo.
Il legame storico che come italiani ci lega alla Somalia, come lo si può tradurre oggi? La soluzione per la Somalia, dopo i fallimenti di dare credibilità a un governo centrale, è cambiare paradigma, e guardare ai poteri territoriali. Cominciamo nel consolidare quelle realtà che già esistono e di cui le più ovvie sono il Somaliland e il Puntland. Realtà che hanno retto in tutti questi anni e anzi sono perfino migliorate. Facciamolo in altre aree, incoraggiandole a dotarsi di simili rappresentanze. Si pone il problema delle zone sotto controllo Shabaab? Anche qui, io dico, c’è da fare un tentativo di entrare in dialogo per rafforzare i processi locali di un autogoverno che sia genuinamente rappresentativo. Senza prevenzioni, ma sulla base di una griglia di condizioni, che prevedano anche il libero accesso alle organizzazioni umanitarie. Aiutiamoli a nascere, a pacificarsi, a dialogare. Poi troveranno loro la strada e noi, intanto, li aiutiamo a non morire di fame.