Il processo. Thailandia, sul traffico dei migranti il regime cala il pugno di ferro
Una delle fosse comuni con i corpi di migranti rohingya scoperte nel maggio del 2015 in Thailandia (Ansa)
Una sentenza storica per la Thailandia, che molti sperano segnali un cambio di rotta. La condanna di 62 imputati e l’assoluzione di altri 40, tutti accusati di partecipazione nel traffico di esseri umani “scoperto” nel Paese a seguito della crisi umanitaria che lo interessò nella primavera 2015 innescata dall’esodo dei rohingya in fuga dalla persecuzione dal Myanmar e da una vita impossibile nei campi profughi in Bangladesh, vorrebbe essere esemplare. Tra essi un generale incaricato di impedire l’approdo ai rohingya, il cui ruolo della tratta era già stato denunciato e documentato nel 2009 dalla stampa di Hong Kong.
Manus Kongpan è stato condannato a 27 anni di detenzione, pesanti pene detentive hanno ricevuto diversi funzionari, gestori dell’ordine, politici locali e un certo numero di organizzatori e manovali del crimine, anche di cittadinanza straniera. Dal primo maggio di due anni fa, in aree forestali al confine con la Malaysia, in una regione fortemente militarizzata sia per la situazione frontaliera, sia per la presenza di una guerriglia indipendentista locale, vennero ritrovate fosse con decine di corpi. Uomini e donne in maggioranza di etnia rohingya, morti di stenti o uccisi durante la detenzione in attesa che qualcuno nelle aree d’origine pagasse un riscatto o di essere letteralmente venduti a sfruttatori e imprenditori.
La reazione ufficiale bloccò migliaia di disperati in mare, ma almeno squarciò un velo di oblio e interessi che da tempo coinvolgono il Paese del sorriso. Come denunciato da più parti, costretto a agire per limitare i danni di immagine davanti a ampi fenomeni di sfruttamento, abuso dello stato di diritto e lotta alla criminalità organizzata mentre alti burocrati, gestori del potere, ranghi elevati in divisa restano sostanzialmente intoccabili.
Il nuovo “cartellino giallo” consegnato nei giorni scorsi dagli inviati dell’Unione Europea ha confermato come l’avvertimento a liberare dalla schiavitù l’industria della pesca, una delle più lucrose, resti sostanzialmente inefficace al di là delle iniziative formali ampiamente propagandate e di sporadiche condanne.