Si fa la fila per scendere giù tra gli incavi rocciosi della Grotta. La stella d’argento che ricorda il punto esatto dov’è nato Gesù sembra lampeggiare sotto i continui flash di fotocamere e telefonini, maneggiati da una piccola babele vociante e rumorosa. Arrivano sempre più numerosi i pellegrini, ma a volte si comportano come turisti. Provo un’inconfessabile nostalgia per i primi anni Duemila, quando l’Intifada svuotava Betlemme e ci si poteva raccogliere in preghiera, alla luce fioca delle candele, inginocchiati davanti alla nicchia dove tutto ha avuto inizio. Ed oggi che ne è del cristianesimo in questa terra che chiamiamo santa ed è lacerata da mille contraddizioni? C’è un presepio vivente non lontano dalla Grotta della Natività. È "La Crèche", un nido d’infanzia dove i bimbi vengono strappati alla morte insieme con la madre. È l’orfanatrofio molto speciale di suor Sophie, missionaria della Carità che ormai tutti conoscono. Vi trovano accoglienza i "figli del peccato" che per la mentalità islamica sono indegni di vivere, al pari delle ragazze-madri che li portano in grembo. Vengono aiutate a partorire di nascosto, sfuggendo così ad un sicuro destino di morte per mano di un loro familiare (un delitto d’onore che il codice non punisce). Pochi giorni fa è successo un fatto incredibile che la piccola suora considera un miracolo. «Una ragazza incinta è arrivata da noi insieme con i suoi genitori – racconta –. Dopo una drammatica discussione il padre ha rinunciato ad ucciderla solo perché gli abbiamo garantito che tutta la vicenda sarebbe rimasta segreta e la neonata cresciuta da noi». Dina, un batuffolo bianco dagli occhi nerissimi, è l’ultima arrivata a La Crèche, un luogo dove il Natale si rivela più forte dei nuovi Erode e la salvezza non è una parola vuota.«Quel che ci sorregge è il desiderio di testimoniare Cristo, non abbiamo altro scopo», dice senza troppi giri di parole suor Donatella, italiana di Bassano del Grappa, da cinque anni in servizio al "Caritas Baby Hospital", l’unico istituto pediatrico di tutta la Cisgiordania. Ricorda con emozione il recente incontro con Benedetto XVI che, durante la sua visita a Betlemme nel maggio scorso, volle recarsi da loro. «Ci disse che stare vicino ai bambini malati, e proprio qui a Betlemme, dovevamo considerarlo un duplice privilegio. Non siamo qui tanto per dare una mano...». Difficile privilegio quello della testimonianza cristiana in mezzo ad una società prevalentemente islamica. Ribatte pronta suor Donatella: «Molte mamme si confidano con noi, ci parlano di problemi che non raccontano a nessun altro. Non ci vedono insomma come delle semplici infermiere».Il Baby Hospital sorge a due passi dal muro, quel che gli israeliani definiscono "barriera di sicurezza" e taglia le colline circostanti fino ad entrare come una ferita nel cuore di Betlemme. Suor Donatella il muro l’ha visto costruire, «con una tale angoscia che di notte non riuscivo a dormire». Ci abitavano molte famiglie cristiane in queste case che ora non possono più spalancare le finestre, bloccate da lastroni di cemento. Airin è una credente e un giorno, mentre spiegava il catechismo, si è sentita chiedere da un bambino: «Anche Gesù aveva bisogno di un permesso per andare a Gerusalemme?». Airin fa parte di un gruppo di donne che si ritrovano per discutere, cantare, pregare. «Un modo per vincere la depressione», ci scherza su. La sede è quella dell’Arab Educational Institut, il cui presidente, Fuad Giacaman, ci dice con grande fierezza: «Io resto un uomo libero, nonostante le pesanti limitazioni della vita quotidiana. Pensi che non sono riuscito ad avere il permesso per recarmi a Gerusalemme dov’ero invitato ad un incontro con il Papa! Ho provato tanta rabbia. Ma non odio: cerco di cambiare le cose senza violenza».Fragile e nascosta, la presenza cristiana ha un significato che va oltre i numeri (il 2 % della popolazione). «Siamo pochi, divisi in tante Chiese e in vari riti, e stiamo diventando sempre di meno a causa dell’emigrazione. Ma chi rimane, solitamente ha forti motivazioni. Siamo gente che non nuoce a nessuno e fa del bene a tutti», è la definizione concisa e perfetta del Custode di Terra Santa, padre Piero Pizzaballa secondo cui «vivere qui è davvero una grazia». Anche se non è facile. Ce lo conferma Yousef Zaknoun, direttore del "Cardinal Martini leadership Institut" per la formazione della classe dirigente palestinese. «A differenza che in Europa qui da noi la religione costituisce un forte elemento identitario, sia per gli ebrei che per i musulmani. Ma un cristiano non può agire nel loro stesso modo, deve seguire il comandamento dell’amore anche verso i nemici. In questa terra è qualcosa di eroico». Non tutti ci riescono. «Abbiamo bisogno di nuove infrastrutture spirituali. È il messaggio che ci ha rivolto Benedetto XVI quando è venuto tra noi. Ma temo che pochi l’abbiano capito – dice con rammarico il professor Sami Basha, docente di pedagogia all’Università cattolica di Betlemme –. Viviamo nella confusione, dominati dall’analisi politica. Ci manca un luogo da cui trarre forza e consistenza». Un giudizio duro che qualcuno s’incarica di smentire con i fatti. Come Samar Sahhar, un donnone traboccante d’energia e di dolcezza che a Betania ha dato vita alla "Casa di Lazzaro" dove una trentina di ragazze, orfane o con una famiglia disastrata alle spalle, hanno trovato accoglienza e protezione. O meglio, hanno trovato una stabilità materiale e una certezza spirituale. È quella di una comunità dove si vive l’amore cristiano anche se tutti i suoi membri, ad eccezione della direttrice Samar, sono musulmani. Quando le chiedo come sia possibile mi risponde con un’altra domanda: «In che lingua piange un bimbo?». È convinta che il mondo, anche quello arabo, sarà cambiato dalle donne. Lei ha già iniziato.Invece di lamentarsi per le sofferenze del passato e le privazioni del presente ci sono dei cristiani che costruiscono un futuro diverso. E lo fanno insieme con i musulmani, in decine di realtà educative che rappresentano il miglior antidoto al fanatismo ed all’estremismo islamico. Arriva il Natale e nelle scuole "Terra Sancta" dei frati francescani anche i ragazzi musulmani sono in prima fila nell’allestire il presepe. «E ne sono orgogliosi, perchè considerano Gesù un grande profeta – osserva padre Ibrahim Faltas, già direttore della scuola francescana presso la Basilica della Natività ed ora parroco di Gerusalemme –. Altro che rinunciare ai simboli natalizi per timore d’offendere la sensibilità degli islamici, come succede da voi in Europa!», conclude con una battuta polemica. Forse c’è qualcosa che dobbiamo ancora imparare dai cristiani di Terra Santa.