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La storia. Gaza senza scuola, la maestra Israa riporta tra i banchi i piccoli profughi

Lucia Capuzzi lunedì 9 settembre 2024

A scandire le ore è il rombo dei motori degli aerei seguito dalle deflagrazioni. Raid dopo raid macerie nuove si ammassano sopra le vecchie creando un’architettura apocalittica. Israa, però, è diventata abile a trovare quel che può essere riutilizzato. Un pezzo di compensato, lo scheletro di uno scaffale, un frammento di tavolo. Le sue mani sistemano i brandelli di oggetti nei modi più fantasiosi. L’importante è andare avanti. La scuola non può fermarsi. In realtà, si tratta a malapena di un telo tenuto su da due assi malferme. Al centro una grande bandiera palestinese. Niente lavagna, né banchi, né sedie. I ragazzi si sistemano su quello che viene recuperato. Penne e carta a volte arrivano grazie a qualche organizzazione internazionale.

Altrimenti si arrangiano. Mentre oggi inizia il nuovo anno scolastico nelle scuole della Cisgiordania occupata, nella Striscia di Gaza per il secondo anno consecutivo più di 630mila studenti non torneranno nelle aule di scuole e istituti di istruzione. Nella Cisgiordania occupata, inclusa Gerusalemme Est, si stima che più di 806.360 studenti siano iscritti in più di 2.000 scuole pubbliche e private gestite dall'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa). I bombardamenti israeliani, con l'inizio della guerra il 7 ottobre, hanno costretto molte scuole a cessare la loro attivita' e a diventare rifugi per le migliaia di abitanti di Gaza rimasti senza casa.

Con le classi distrutte o trasformate in alloggi per gli oltre due milioni di sfollati, la promessa fatta ad agosto dal ministero dell’Educazione di riprendere le lezioni lunedì in qualche forma, magari online, sembra destinata a restare lettera morta. La scuola di Miss Israa, come la chiamano gli allievi, è l’eccezione. Ha cominciato quasi per caso quando, dopo aver perso la casa in un attacco, s’è rifugiata con la famiglia nella biblioteca di un istituto scolastico. Per trascorrere le lunghe ore di inedia, nel caos generale, leggeva. Ben presto, s’è ritrovata circondata da ragazzini curiosi che le chiedevano che cosa facesse. ha iniziato a farlo a voce alta.

Israa Abu Mustafa, maestra di professione, così, ha avuto l’idea di dar vita a una scuola informale che rappresentasse un’oasi di normalità per bimbi e adolescenti. Le adesioni sono cresciute man mano con la prosecuzione del conflitto: prima pochi, poi trentacinque, oltre sono oltre settanta tra i sei e i dodici anni e Miss Israe è costretta a fare i doppi turni. Nel frattempo, le lezioni si sono spostate insieme ai protagonisti. Fino ad approdare nella tenda di Khan Yunis, città del sud che la guerra ha trasformato in un immenso campo profughi, dove al momento si svolgono. «Il conflitto ha privato i minori di Gaza di tutto: cibo, acqua pulita, cure mediche, affetti. Lotto perché non strappi via loro anche la possibilità di studiare. Non è facile, certo – spiega l’insegnante trentenne – ma è fondamentale. Tiene la loro mente occupata, li aiuta evadere dalla routine della guerra, spalanca loro prospettive». Secondo le autorità della Striscia, controllate da Hamas, almeno un quarto delle quasi 41mila vittime frequentavano la scuola o l’università.

Nonostante la povertà diffusa, a Gaza come in Cisgiordania, il livello di istruzione è alto. Più di cinquecento insegnanti sono rimasti uccisi dall’inizio del conflitto. «Chi è rimasto deve darsi la mano», sottolinea Miss Israa. La maestra non segue il programma classico. Le lezioni spaziano dall’inglese all’arabo alla matematica agli studi religiosi. Al termine delle lezioni, i più grandi aiutano i più piccoli nei compiti. «Lo studio diventa un catalizzatore delle tensioni accumulate, facendo sì che l’aggressività, cresciuta esponenzialmente in seguito alla guerra, si riduca. Soprattutto, aiuta i ragazzi a conservare un’idea di futuro».

La conferma è che molti sono preoccupati all’idea di perdere anni scolastici e di restare indietro. «Spero che il ministero dell’Educazione ipotizzi un piano generale di recupero per quando la guerra sarà finita. Perché prima o poi terminerà anche se ora sembra quasi impossibile.

Il rischio è quello di assuefarsi alla morte e alla distruzione. Questo orrore è il vero nemico contro cui dobbiamo combattere con tutte le nostre forze. Io porto avanti la mia battaglia nell’unico modo che conosco: condividendo il sapere con gli altri. Anche in tempo di penuria estrema, questo posso ancora farlo».