Mondo

Barcellona. Tornata e fuga di Puigdemont. «Non è già più in Spagna»

Lucia Capuzzi venerdì 9 agosto 2024

Carles Puigdemont davanti al Parlamento catalano

Aveva promesso di tornare da “president”, libero da pendenze giudiziarie e pronto a riprendere la guida della Generalitat dopo quasi sette anni di “esilio” in Belgio. Carles Puigdemont lo aveva ripetuto per tutta la campagna delle regionali del 12 maggio scorso. Niente, però, è andato come aveva previsto. Il suo partito – Junts pel Catalunya – e il resto del fronte indipendentista sono stati sconfitti dai socialisti e l’ex leader latitante ha ottenuto solo un seggio nel Parlamento catalano. Soprattutto, poi, l’amnistia concessa dal governo di Pedro Sánchez ai protagonisti della rivolta secessionista del 2017 – questo l’accordo in cambio della fiducia dei partiti separatisti – è stata bloccata dai magistrati del Tribunale Supremo. Pur di non uscire dalla scena politica, però, Puigdemont ha cambiato i programmi in corsa. E, ieri, ha trasformato il “grande rientro” da Waterloo, dove risiede, in una comparsata di una decina di minuti all’Arco di Trionfo di Barcellona. A meno di un chilometro di distanza, il Parlamento si sarebbe riunito un’ora dopo per eleggere il nuovo “president”, il socialista Salvador Illa, sostenuto anche da Esquerra Republicana, partito separatista ed ex alleato di Puigdemont. Di fronte a 3.500 sostenitori, convocati con un video-messaggio pubblico il giorno precedente, ha detto: «Sono venuto per ricordarvi che siamo ancora qui, che non abbiamo diritto a rinunciare». Poi ha tuonato contro la «feroce repressione» dei leader indipendentisti dopo il 2017. E ha concluso: «Non ci interessa restare in un Paese in un cui le leggi di amnistia non amnistiano».

Al grido «visca Catalunya lliure» (viva la Catalogna libera), ripetuto dalla folla, l’ex president è “scomparso” nonostante i trecento mossos – i poliziotti catalani – dispiegati per arrestarlo per malversazione di fondi pubblici, il delitto che il Tribunale Supremo, chiamato ad applicare l’amnistia caso per caso, non ha voluto cancellare. Per non aumentare la tensione, l’idea delle autorità era quella di catturarlo in modo “discreto” al termine del discorso. Non hanno, però, potuto farlo: Puigdemont si è dato alla macchia protetto dalla gente e grazie alla complicità di due agenti, poi arrestati. Avrebbe già lasciato la Spagna, secondo Gonzalo Boye, il suo avvocato, fuggendo dal Paese poco dopo avere tenuto il breve discorso. In quel frangente, mentre il resto dei mossos batteva le strade della Catalogna alla sua ricerca, il Parlamento ha celebrato ugualmente la seduta per la designazione di Illa. Che è stato eletto in serata con 68 voti a favore e 66 contro, respingendo al mittente la richiesta di sospensione di Junts è stata respinta al mittente. Nel discorso da nuovo president in pectore, il leader socialista ha chiesto con forza «la piena applicazione dell’amnistia» e ha sostenuto il riconoscimento di uno “Stato plurinazionale”.

Una mano tesa a Esquerra, messa alle corde dalla prova di forza di Puigdemont con cui rivaleggia per l’egemonia della galassia separatista. Pur di malavoglia, il partito ha preso parte all’accoglienza “dell’esiliato” scomodo. Poi, però, in aula, ha ribadito l’alleanza con Illa. Probabilmente l’arresto di Puigdemont avrebbe reso più difficile il sostegno ai socialisti catalani. Soprattutto avrebbe complicato la situazione per il governo che dipende dall’accordo con il fronte catalanista. Quello dell’ex president, contro le previsioni della vigilia, non è stata un ritorno ad ogni costo, incluso il carcere, bensì una “toccata e fuga”.

L’ennesima. Certo, l’opposizione, soprattutto l’ultra-destra di Vox, ha subito utilizzato il “caso Puigdemont” per attaccare il premier, accusato di voler liberare «gli attentatori all’unità nazionale». Alla fine, però, la politica catalana sembra decisa a intraprendere un nuovo corso. E il centro delle decisioni è Barcellona, non Waterloo.