Il terremoto in Nepal. «Io, cooperante tra le macerie, ho visto una profonda umanità»
Paura. La prima reazione al terremoto è la paura, il terrore che tutto finisca, che il lavoro compiuto fino a ieri e le prospettive del futuro vengano inghiottite dal tremare della terra. Con le strade che si aprono e quel poco di asfalto di Kathmandu che si dissolve nella voragine che avanza fin quasi sotto i miei piedi. Passato quel primo interminabile minuto – per fortuna ero già in strada alle 8 e poco più del mattino – ho visto il terrore stampato sui visi delle persone attorno a me. Terrore puro, con case crollate, palazzi sventrati, le urla dei feriti e le urla di terrore di tutti noi. Non so dire quanto è durata la prima scossa: un minuto mi hanno detto dopo, un’eternità quando la senti, un tempo che non finisce più. Immediatamente dopo è sgorgata, spontanea, un’altra sensazione, più forte della paura: la volontà di reagire subito, immediatamente. Allora la prima attività è stata correre verso Bagmati, il sobborgo di Kathmandu a pochi minuti da casa dove c’è l’orfanotrofio dell’attività umanitaria che seguo con l’Associazione Joint nell’ambito del Progetto di Volontariato Europeo. Ho trovato le bambine in lacrime, terrorizzate. Ma incredibilmente non c’erano danni. La determinazione a reagire diventa più forte quando ti accorgi – come mi sono accorta – che se da una parte le case crollano accartocciate su loro stesse, queste piccole orfane, già maltrattate nei loro pochi anni di vita, hanno un’occasione per andare avanti. Come l’ho avuta io. E questa è la seconda da quando sono in Nepal: a ottobre un rovinoso incidente di autobus – finito nella scarpata, 150 metri di precipizio – mi ha procurato solo contusioni. E ha rinforzato il desiderio di proseguire a lavorare per il bene comune. Desiderio che il terremoto non ha spezzato. Poi posso solo parlare della confusione indescrivibile dei primi soccorsi, in un Paese fragile, con tanti problemi logistici e infrastrutture precarie. Ho visto tanti feriti caricati – anche due per volta – sulle motociclette, per andare al più vicino ospedale o ambulatorio. Inutile attendere le ambulanze – non potrebbero bastare vista l’entità del disastro – e quando l’asfalto si dissolve, le moto svicolano. In queste prime ore, anche dopo l’arrivo dell’esercito, si continua a scavare con le mani. Tanti feriti li abbiamo portati a forza di braccia nei posti di primo soccorso. (...) Ma qui nessuno abbandona nessuno: non c’è solo fatalismo, non c’è solo compassione, piuttosto, profonda umanità.
IL RACCONTO INTEGRALE SU AVVENIRE DI DOMENICA 26 APRILE