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Strategie. Ora l'Iran cerca di alzare il prezzo della moderazione con l'Occidente

Nello Scavo, inviato a Gerusalemme mercoledì 7 agosto 2024

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Sbarcato nella saudita Gedda allo scoccare del decimo mese di guerra a Gaza, sul quel tratto di Mar Rosso che anche ieri i combattenti yemeniti Houthi hanno bersagliato tentando di colpire una nave cargo scortata da due cacciatorpedinieri Usa, il ministro degli Esteri iraniano Ali Bagheri Kani si è unito alla riunione straordinaria dell’Organizzazione per la Cooperazione islamica, per fare la conta dei sostenitori di Teheran. Kani ha cominciato giustificando quel che accadrà: «Il regime sionista – ha detto – è la vera causa dell’instabilità nella regione e la Repubblica islamica dell’Iran darà una risposta decisiva a chiunque stia causando insicurezza e instabilità». Parole proferite anche nel corso di una telefonata con il suo omologo egiziano Badr Abdelatty. Nel pomeriggio Il Cairo ha annunciato di aver emesso per i suoi aerei di linea il divieto di sorvolo dell’Iran per tre ore nella prima mattinata di oggi.

In Israele queste notizie vengono prese con consumata diffidenza, tuttavia limitando l’affollamento all’aperto e assicurandosi di avere abbastanza acqua e viveri se l’annunciata rappresaglia dovesse paralizzare per giorni il Paese.

Il forsennato giro di telefonate della diplomazia iraniana (da Macron alla Gran Bretagna all’Austria e a Malta) segnala l’attivismo diplomatico internazionale, e al tempo stesso un’apparente disponibilità iraniana a negoziare sulle virgole. Nei giorni scorsi alcuni media americani avevano rivelato (non smentiti) che un jet della Cia, il servizio segreto Usa, era atterrato in una base iraniana per un incontro bilaterale. La rappresaglia non è in discussione, la portata e la durata sono invece “trattabili”. Gli emissari Usa hanno adombrato la possibilità di scongelare il negoziato sul nucleare per scopi civili, archiviato da Trump e mai veramente ripartito sotto Biden che pure aveva promesso un riavvio.

«L’Iran comprende chiaramente che gli Stati Uniti sono risoluti nella difesa dei nostri interessi, dei nostri partner e della nostra popolazione – scrive il Washington Post citando fonti dell’amministrazione Usa –. Abbiamo spostato una quantità significativa di asset militari nella regione per sottolineare questo principio». Dissuasione diplomatica e minaccia armata fanno ritenere alle fonti del quotidiano di Washington che la partita negoziale stia funzionando e la Repubblica islamica potrebbe riconsiderare il suo piano di risposta “pesante”. «Stiamo facendo di tutto, come G7, con i Paesi arabi dell’area, l’Iraq, tutti quanti – ha confermato il ministro degli Esteri Antonio Tajani – invitando l’Iran a usare la massima prudenza in questa reazione».

A parole gli ayatollah vorrebbero incendiare l’intera mezzaluna mediorientale, nei fatti stanno giocando una partita esistenziale per perpetuare il proprio potere ed estenderlo attraverso Hezbollah in Libano, Houthi nello Yemen e la crescente influenza dei gruppi sciiti in Iraq. Proprio gli Houthi ieri hanno lanciato un attacco contro una nave cargo mentre due cacciatorpedinieri Usa sopraggiungevano nell’area marittima.

Il ministro Kani assicura che l’Iran «non farà alcun compromesso per difendere la sua sicurezza nazionale, integrità territoriale e sovranità nazionale». Nessuna menzione, nei suoi ripetuti interventi di ieri, delle proiezioni all’estero né delle uccisioni di altri esponenti filoiraniani in Libano e in Siria. Quando l’1 aprile venne ucciso in Siria il generale iraniano Reza Zahedi, Teheran reagì pochi giorni dopo con 300 ordigni sparati contro il territorio israeliano, ricevendone un attacco mirato di Tel Aviv contro una base militare iraniana.

Anche Nasrallah, il leader di Hezbolah, martedì aveva alternato la consueta retorica incendiaria a toni più pragmatici, celebrando la «prudenza» dell’asse filoiraniano e chiedendo alla resistenza palestinese «pazienza e determinazione». Un messaggio indirizzato direttamente a Yahya Sinwar, il capo militare di Hamas, regista dei massacri e dei sequestri del 7 ottobre, da meno di due giorni nominato alla guida di tutta Hamas, riunendo in sé l’ala politica e quella militare. L’imprendibile Yahya, l’uomo con cui Netanyahu mai vorrebbe trattare, ha ricevuto però un indiretto riconoscimento nella sua nuova veste di capo politico, direttamente dal Dipartimento di Stato Usa. Antony Blinken, il capo della diplomazia di Washington che da mesi riceve da Netanyahu una serie di porte chiuse in faccia, ha detto che sta al leader di Hamas «decidere se andare avanti» nei negoziati per un cessate il fuoco.

Per la gente di Gaza e per i palestinesi della Cisgiordania le cose non volgono al meglio. Una decina di morti ieri nel Sud della Striscia, mentre nei campi profughi di Palestina le retate israeliane sono senza tregua. Tuttavia «siamo più vicini di quanto pensiamo di essere mai stati» a un accordo per un cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi, ha affermato il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, John Kirby, secondo cui «c’è una buona proposta davanti a entrambe le parti, e devono entrambe accettarla. Riteniamo – ha proseguito – che entrambe debbano fare l’ultimo sforzo». Il peggior timore di Washington è quello che il segretario di Stato Blinken chiama «errore di calcolo». E quando ci sono di mezzo le ambizioni delle diverse fazioni estremiste, le faide interne ai gruppi islamisti, i possibili bluff ai tavoli della diplomazia, più che un rischio diventano una probabilità.