Lettera del figlio Aris ad Avvenire. Suu Kyi, la pace reclusa. «Vi racconto mia madre»
Kim Aris è il più minore dei due figli di Daw Aung San Suu Kyi, la donna simbolo dell’opposizione al regime militare del Myanmar insignita nel 1991 del premio Nobel per la pace. Vive nel Regno Unito, il Paese di origine del padre, Michael Aris, lo storico inglese che sposò la leader della Lega nazionale per la democrazia birmana nel 1972. Dalla capitale britannica intrattiene un irregolare scambio epistolare con la madre, oggi quasi ottantenne, reclusa da tre anni in isolamento nel carcere di Naypyidaw, la capitale del Myanmar. Il Paese è reduce dal golpe militare del 2021 durante cui furono uccisi più di 1500 manifestanti. Fu l’inizio del conflitto civile ancora in corso. Le milizie del regime bombardano periodicamente villaggi, ospedali e chiese per smantellare la resistenza. Cresce ogni giorno il numero degli sfollati. Quasi un terzo della popolazione civile necessita di assistenza umanitaria. È di gennaio l’ultima lettera manoscritta che Kim ha ricevuto dalla madre dopo un lungo silenzio. Segno, per lo meno, che è viva. (A.Nap.)
Caro Avvenire,
sono certo che se fosse libera, Maymay, questo è il termine birmano con cui ci si riferisce alla mamma, avrebbe contribuito con piacere alla vostra iniziativa #donneperlapace. Ma purtroppo mia madre Aung San Suu Kyi non lo è. Si trova in carcere, ancora una volta lontano da tutto e da tutti.
È in galera da quando, tre anni fa, i militari hanno preso il potere smantellando brutalmente i pilastri di quella che era la più giovane democrazia del mondo. È stata condannata a 33 anni di reclusione, pena aggravata da una crudele forma di isolamento. È il caro prezzo che ha dovuto pagare per la sua protesta pacifica, per aver portato la democrazia nel suo Paese. Tanti in Birmania (Myanmar, ndr) hanno dovuto sopportare molto peggio. Tra questi ci sono milioni di donne e di bambini.
I molti anni trascorsi ai domiciliari, prima dell’ultimo arresto, l’avranno certo preparata a questo regime, ma sono preoccupato per le sue condizioni considerato che quest’anno compirà 79 anni e che ha problemi di salute. Paure a cui, conoscendola, risponderebbe così: «L’unica vera prigione è la paura, e l’unica vera libertà è la libertà dalla paura».
Maymay ha dedicato gran parte dei suoi scritti al tema della pace. La sua educazione e la storia della sua famiglia (aveva solo due anni quando suo padre, Aung San, l’eroe della lotta per l’indipendenza, fu assassinato), hanno contribuito a plasmare i suoi principi e a ispirare le sue dimostrazioni non violente. Il suo pensiero ha una dimensione spirituale influenzata dalla filosofia gandhiana, con radici nel buddismo Theravada, combinata a concetti della teoria politica occidentale come democrazia, dialogo, libertà, pace e giustizia. Il suo credo, in breve, è il risultato della combinazione tra fede e fiducia nel popolo birmano. L’idea di “pace birmana” che professa consiste nella rimozione di tutti i fattori, come “discriminazione, disuguaglianza e povertà”, che distruggono l’armonia tra gli uomini e le nazioni. C’è un passaggio del suo discorso di accettazione del Premio Nobel per la Pace 1991, che ha potuto pronunciare solo 21 anni dopo averlo ricevuto, che enuncia in modo efficace questa nozione: «Il nostro obiettivo dovrebbe essere creare un mondo libero dagli sfollati, dai senzatetto e da chi è senza speranza, un mondo in cui ogni angolo sia un santuario in cui vivere in pace. Ogni pensiero, ogni parola e ogni azione che aggiunge alla società qualcosa di genuino e positivo è un contributo alla pace. Ognuno di noi può darlo».
Maymay non ha mai perso l’occasione per sottolineato il ruolo che le donne hanno in questo processo di costruzione e promozione della pace. Nel 1995, in un videomessaggio inviato al Forum delle Ong tenuto a Pechino, in Cina, nell’ambito della quarta Conferenza Mondiale sulle Donne, spiegava: «Nelle società in cui gli uomini sono veramente sicuri del proprio valore, le donne non sono semplicemente tollerate ma apprezzate. (…) Per millenni si sono dedicate quasi esclusivamente alla cura e alla protezione dei minori e degli anziani, lottando per l’armonia che favorisce la vita nel suo insieme. Per quanto ne so, nessuna guerra è mai stata iniziata dalle donne. Ma sono loro, e i bambini, che da sempre ne soffrono maggiormente le conseguenze. Ora che stiamo ottenendo il controllo consapevole del ruolo che ci è stato storicamente imposto, che è quello di sostenere la vita nel contesto della casa e della famiglia, è tempo di applicare all’arena del mondo la saggezza e l’esperienza acquisite nelle attività di pace svolte in così tanti millenni. L’istruzione e l’empowerment delle donne di tutto il mondo non può che risultare in una vita più amorevole, tollerante, giusta e pacifica per tutti».
Sono certo che sarebbe orgogliosa, oggi, di vedere le donne che, in Birmania, continuano ad essere in prima linea nel movimento di protesta seguito al golpe. Nonostante i rischi a cui espongono sé stesse e le proprie famiglie. È un segnale forte inviato ai generali che hanno rimosso una leader civile, donna, e ripristinato un sistema patriarcale che ha oppresso la popolazione femminile per cinquant’anni. Una manifestante, un giorno, spiegò: «Come madre, nel profondo del mio cuore, riconosco che il futuro di mia figlia, e il futuro di tutti i giovani della nazione, potrebbe regredire nell’oscurità».
Nel periodo di breve democrazia nato dall’attivismo di Maymay e di molti altri, le donne birmane hanno acquisito competenze e capacità di comando. Credono, in quanto future madri della nazione, che sia loro dovere guidare il ripristino della sovranità popolare. Queste donne, di ogni estrazione sociale, etnica e religiosa, stanno utilizzando le loro qualità femminili, unitamente alle abilità da poco apprese, per contrastare la giunta militare. Per esempio sono tornate in strada, di notte, a battere pentole e padelle, come si usa fare in un antico rito per scacciare il male, per mandare un chiaro messaggio di dissenso al regime. Sono state le lavoratrici dell’industria tessile che sono scese per prime in strada contro il colpo di Stato. I settori dell’occupazione presi di mira dalla giunta a punire il dissenso sollevato dal pacifico Movimento di Disobbedienza Civile (Cdm), istruzione e assistenza sanitaria, sono non a caso a prevalenza femminile. Nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del regime, le donne birmane si sono esposte alla violenza mirata della giunta e dei suoi sostenitori, a soprusi e persecuzioni in senso ampio subite nella realtà fisica e in quella online. Le detenute sottoposte a interrogatorio nelle prigioni devono fare i conti con insulti, minacce di stupro, perquisizioni corporee e percosse tanto violente da sfigurarne i volti e i corpi. Spesso solo con il pretesto di cancellarne i tratti “non femminili” come i tatuaggi.
La battaglia per la democrazia in Birmania è diventata un simbolo della partita tra libertà e autoritarismo che si combatte nel cuore dell’Indo-Pacifico. È nell’interesse delle più importanti democrazie della regione e del mondo assisterla perché possa raggiungere una svolta e far cadere un regime militare che, in questi anni, ha fatto del Paese uno snodo cruciale della criminalità informatica, del traffico di organi e di esseri umani a livello globale.
Sì, mia madre è diventata famosa in tutto il mondo per il suo impegno a favore della pace e della democrazia. Ma vorrei sottolineare l’incrollabile sostegno ottenuto da mio padre nel suo percorso. È la forza della loro unione che l’ha resa capace di affrontare le difficoltà e le ingiustizie. Senza il suo sostegno, oggi, Aung San Suu Kyi e la Birmania sarebbero cancellate dalla memoria dell’umanità. Spetta a me, ora, fare in modo che non vengano dimenticate. So di averli entrambi dalla mia parte quando dico che se vogliamo cambiare le cose in meglio, allora, non importa cosa l’esercito faccia contro di noi: verso di loro dobbiamo usare sempre amore e gentilezza. Questo non significa rinunciare a proteggere se stessi o i propri cari ma, semplicemente, accordargli, a battaglia finita, la giustizia che vorremmo per noi stessi. Solo allora avremo un vero progresso. Preghiamo perché accada presto. (Questo testo è stato tradotto da Angela Napoletano)